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Un accordo mancato, una guerra accesa. Il 7 ottobre come spartiacque
L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 non è stato soltanto un atto di guerra, ma un momento strategico destinato a far deragliare una svolta storica: la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, che avrebbe dovuto essere formalizzata due giorni dopo, il 9 ottobre. Una firma che avrebbe esteso gli Accordi di Abramo al cuore dell’Islam sunnita, sancendo un’alleanza in funzione anti-iraniana.
Per l’Iran sciita, da anni impegnato in una strategia di accerchiamento di Israele attraverso proxy come Hamas, Hezbollah e gli Huthi, l’intesa tra lo Stato ebraico e la monarchia saudita rappresentava una minaccia esistenziale. Da qui la scelta di colpire prima, con un attacco brutale che ha rimesso la “causa palestinese” al centro del conflitto regionale e sabotato la nascente alleanza israelo-sunnita.
Un conflitto confessionale travestito da geopolitica
La guerra in corso non può essere ridotta a uno scontro tra Israele e Gaza. Si inserisce in una frattura più ampia: quella tra un fronte sunnita moderato, filo-occidentale, e un blocco sciita, radicale, guidato da Teheran. La posta in gioco è l’equilibrio strategico del Medio Oriente: controllo delle rotte energetiche, influenza ideologica e, soprattutto, deterrenza nucleare.
L’Iran è accusato da Israele e da molti osservatori internazionali di essere a pochi mesi dalla possibilità di dotarsi della bomba atomica. L’AIEA ha confermato l’aumento di uranio arricchito e l’insufficienza dei controlli. L’atomica iraniana non spaventa solo Israele: preoccupa anche Riyad, Abu Dhabi, Il Cairo e l’Occidente, perché cambierebbe l’equilibrio del potere in modo irreversibile.
La guerra che devasta i civili
Mentre i governi combattono, sono i civili a pagare il prezzo più alto. In Gaza le vittime superano le 60.000, tra cui decine di migliaia di bambini. In Israele, le comunità colpite dai razzi iraniani piangono morti e sfollati. In Iran, i bombardamenti israeliani hanno distrutto infrastrutture, colpito ospedali, lasciato centinaia di vittime tra la popolazione.
Il conflitto si sviluppa anche sopra le teste di milioni di bambini, molti dei quali crescono senza mai conoscere un giorno di pace. A Gaza, in Cisgiordania, nei villaggi iraniani, tra le macerie e i blackout, la guerra diventa una condizione esistenziale. Un trauma generazionale che nessuna diplomazia potrà cancellare.
La pace interrotta e un futuro incerto
Della firma mancata del 9 ottobre si parla poco, eppure resta un punto di rottura decisivo. Una pace imperfetta, forse, ma realistica. Un’occasione di dialogo, scambio, riconoscimento. È stata bloccata sul nascere da chi, come Hamas e Teheran, ha interesse a mantenere il conflitto permanente. Ora la regione si trova sospesa tra l’illusione di una vittoria militare e il rischio concreto di una guerra atomica.
Israele, forte sul piano militare ma isolato sul piano internazionale, potrebbe scegliere la via della pace: usare la sua superiorità per avviare un processo negoziale con l’Autorità Palestinese e con i Paesi arabi. Ma resta prigioniero di una classe politica divisa e di una società lacerata.
L’Iran, sotto assedio e isolato, potrebbe rilanciare la linea dura, fino a uscire dal Trattato di non proliferazione. O, al contrario, trattare per salvare il regime e il Paese. Intanto, il popolo iraniano soffre tra repressione interna e bombardamenti esterni, privato di diritti e futuro.
Un bivio storico
Il 7 ottobre è stato lo spartiacque. Non tra pace e guerra, ma tra un Medio Oriente che prova a costruire un equilibrio nuovo e uno che continua a crollare su se stesso. La bomba iraniana, la fragilità israeliana, il disordine arabo, l’inerzia occidentale: tutto converge verso un punto critico.
La domanda da porsi, oggi, non è solo cosa sia successo quel giorno. Ma cosa sarebbe potuto accadere il 9 ottobre, se la pace avesse avuto una firma, una chance, una visione.