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29 Dicembre 2024Tempi presenti Torna fra gli scaffali «Lo stato atomico» di Robert Jungk, il libro di riferimento per i movimenti contro il nucleare tra la fine degli anni ’70 e gli ’80 (Castelvecchi)
Dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli ’80, Lo stato atomico di Robert Jungk è stato tra i principali punti di riferimento politici e teorici degli estesi movimenti che si battevano negli Stati uniti e nell’Europa occidentale contro lo sviluppo dell’industria nucleare nella sua duplice natura civile e militare. A quasi mezzo secolo di distanza l’inchiesta dello studioso e militante antinuclearista torna nelle librerie italiane (Castelvecchi, pp. 200, euro 20) e vi torna, come mostra l’accurato saggio introduttivo di Daniela Padoan, con tutta la forza, ancor più che della preveggenza, di una ritrovata attualità. In un momento in cui le promesse di energia senza limiti dell’atomo e perfino la minaccia della guerra nucleare riemergono, dopo anni di relativa eclissi, al centro del discorso pubblico e di una certa progettualità politica.
LE INTESE tra le grandi potenze per il contenimento e la riduzione degli armamenti nucleari stipulate negli anni della distensione cadono uno dopo l’altro, (nel ’26 scade l’ultimo sopravvissuto, il New Start), controlli e ispezioni sono sospese e la messa al bando degli esperimenti nucleari non è più garantita. Il riarmo atomico ritrova dopo decenni la sua piena libertà dai vincoli che una ragione condivisa gli aveva imposto dopo la fase più acuta della guerra fredda. La direzione di marcia si è invertita rispetto agli anni in cui l’arsenale nucleare veniva percepito come una generale minaccia da imbrigliare, e il susseguirsi di grandi e piccoli incidenti nelle centrali atomiche, accompagnato dal problema tuttora irrisolto delle scorie, avevano determinato un declino degli entusiasmi nuclearisti.
Due fattori tra loro collegati sono poi intervenuti nel rilanciare la fortuna dell’atomo: le guerre in corso e l’inasprimento delle tensioni internazionali con la conseguente crisi energetica e la contesa per il controllo delle materie prime. Ai quali si possono aggiungere l’illusione, propria dei nazionalismi oggi in piena espansione, che l’energia atomica possa consentire una sorta di autarchica sovranità energetica, e una puerile sensazione di potenza. Ed è precisamente il rapporto tra atomo e potere, tra stato, grande industria ed energia nucleare, (che Jungk indagava nel suo processo di sviluppo a partire dall’immediato dopoguerra), a riproporsi con poche varianti nell’attualità. Un rapporto che non comportava e non comporta diritti, trasparenza, dibattito pubblico. Dalle spaventose condizioni di lavoro nei siti nucleari alla devastazione del territorio circostante (il libro si sofferma a lungo sull’infernale sito francese di La Hague), dalla militarizzazione dei trasporti di materiali pericolosi al controllo poliziesco e la repressione degli oppositori e delle voci dissenzienti, soprattutto quelle provenienti dall’interno, Jungk ricostruisce un mondo opaco, segreto, rigorosamente gerarchico, del tutto impermeabile a qualsiasi forma di controllo democratico: lo «stato atomico» appunto.
Non una branca industriale, sia pur strategica e militarizzata, non un arsenale protetto da ogni ingerenza o contestazione ma, anche e soprattutto attraverso l’affermazione e la diffusione del nucleare «civile», una specifica «forma-stato» di fatto incompatibile con le procedure e le istituzioni della democrazia.
NEL 1975 SI TENNE alla Stanford University in California una conferenza che si proponeva di esaminare l’effetto delle misure di sicurezza atomiche sulle libertà civili e che mise a fuoco il ruolo significativo dell’energia nucleare nello sviluppo dello stato di diritto in stato totalitario. Jungk così riassumeva gli effetti di una condizione di emergenza che la pericolosità degli impianti nucleari trasformava in una costante necessità di protezione e sorveglianza dei cittadini da parte dell’esecutivo: «Industria atomica significa un permanente stato di emergenza che può sempre prendere a pretesto una permanente minaccia. Essa ’permette’ leggi dure per la ’protezione dei cittadini’». E si chiedeva, infine, se non fosse proprio questo aspetto antidemocratico a rendere appetibile l’industria atomica anche quando le sue prospettive di profitto non dovessero rivelarsi particolarmente brillanti. È quello che converrebbe chiedersi a maggior ragione oggi che una destra con spiccate tendenze autoritarie e dichiarate simpatie nucleariste governa o condiziona i governi di gran parte dei paesi europei. Lo stato atomico non è un residuato della guerra fredda ma un progetto politico che può trovare spazio nei rapporti di forza del presente.
IL RITORNO del nucleare, o la «seconda era atomica» come qualcuno la ha opportunamente battezzata, poggia sull’idea di rendere maneggiabile, agile, controllabile, e pronta per l’impiego l’energia nucleare. Quella militare con la bomba tattica che pur sterminando all’istante qualche milione di persone, non condurrebbe necessariamente alla distruzione totale del pianeta e rientrerebbe così in un calcolo «razionale». Quella civile che, con i micro reattori diffusi di ultima generazione (sperimentali, costosissimi e con imprevedibili tempi di realizzazione), ridurrebbe fortemente la portata di eventuali incidenti e si presenterebbe inoltre come energia pulita risolutiva della crisi climatica. Ma, nell’un caso e nell’altro, si tratterebbe comunque di un sistema tecnocratico accentrato, affidato a grandi aziende monopolistiche e ai poteri di controllo degli stati. In ogni modo una gestione arbitraria della politica energetica incompatibile con la democrazia. Contrariamente allo sviluppo delle energie rinnovabili che, oltre al massimo decentramento, possono trasferire la gestione degli impianti a una grande pluralità di soggetti. E che proprio per questo incontrano l’ostilità dei poteri monopolistici.
Il grande merito di Robert Jungk, fin dagli anni ’50 impegnato nei movimenti pacifisti e antinucleari, è stato quello di ricondurre le dispute tecnologiche e scientifiche sul futuro dell’energia nella dimensione politica che è loro propria e nel gioco degli spregiudicati interessi economici cresciuti intorno all’industria dell’atomo. La stessa dimensione nella quale oggi riprende la contesa.