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Lo stato dell’Unione Il presidente ucraino arriva in Inghilterra con Macron e Merz. Ma la «via europea alla pace» ormai è solo uno slogan
Di persona si incontreranno oggi pomeriggio alle 15 a palazzo Chigi. Negli ultimi giorni però Giorgia Meloni e Volodymyr Zelensky si sono già sentiti due volte. Ieri, dopo l’incontro di Londra tra il presidente ucraino e i leader di Uk, Francia e Germania, anche la premier italiana, con altri leader europei, si è collegata in call. Ha sottolineato la necessità della «unità di vedute tra partner europei e Stati Uniti», in particolare sulla «definizione di solide garanzie di sicurezza» e delle «misure a sostegno dell’Ucraina e della sua ricostruzione». Domenica al telefono la premier, oltre a concordare l’incontro di oggi, aveva confermato il pieno sostegno italiano a Kiev e assicurato l’immediato invio di materiali necessari per riparare le infrastrutture energetiche.
Oggi la premier italiana assicurerà all’amico ucraino che il rinvio della proroga del decreto sulla fornitura di armi, dovuto alle resistenze della Lega, non implica alcun mutamento della posizione italiana e che il decreto sarà approvato nei tempi necessari, entro l’anno. Allo stesso tempo, però, insisterà perché l’Ucraina eviti di incrinare i rapporti con Trump, senza apparire troppo rigida e senza poter essere accusata di ostacolare la pace.
È la parte in commedia che Meloni si sforza di recitare sin dall’inizio dell’era Trump: quella dell’europeista leale ma anche vicinissima agli Usa, dell’alleata fedele di Kiev ma senza spingersi troppo oltre sul piano dell’eventuale invio di truppe per una missione di pace. A essere cambiato è però lo scenario: è questo slittamento che rende molto più difficile per Meloni mantenere il precario equilibrio. Dopo la pubblicazione del documento sulla Strategia per la sicurezza nazionale di Trump, con i suoi attacchi a colpi di clava contro la Ue, e dopo la durissima replica del presidente del Consiglio europeo Costa di ieri l’equidistanza è una chimera. La tensione è già ben oltre i livelli di guardia, anche se non è affatto escluso che nei prossimi giorni si abbassi come Meloni si augura e come sarebbe coerente con l’altalenante modus operandi di Donald Trump.
Se il roseo auspicio non dovesse realizzarsi, per la premier tenere il piede in due staffe diventerà molto arduo. Dietro le cineserie diplomatiche è evidente che la pax trumpiana non è considerata accettabile dall’Ucraina e dall’Europa né sul piano delle garanzie di sicurezza né, soprattutto, su quello della cessione dei territori del Donbass. Zelensky, i leader europei e la stessa Meloni sembrano aver concordato una linea strategica che passa per il chiedere agli Usa modifiche che tra l’altro segnerebbero anche il rientro dell’Europa in una partita dalla quale sin qui è sempre stata tagliata fuori. Se l’intesa non sarà trovata, Meloni dovrà scegliere.
C’è un altro fronte critico, forse persino più urgente e più immediato: quello degli asset russi. La presidente von der Leyen e il cancelliere Merz insistono e accelerano per trasformare quegli asset in prestito per l’Ucraina e mirano a farlo garantire da tutti gli Stati membri dell’Unione. Trump ha già fatto sapere di essere contrarissimo. Per la Russia sarebbe addirittura «un casus belli». L’Italia non lo dice apertamente ma è altrettanto ostile a quella soluzione, sia perché teme che l’onere ricadrebbe in buone parte sulle sue spalle, essendo chiaro che l’Ucraina non sarà mai in grado di restituire il «prestito», sia perché le tensioni che già lacerano la maggioranza diventerebbero molto meno controllabili.
Sull’Ucraina e il riarmo il centrodestra non potrebbe essere più diviso. Tajani sposa la linea più europeista, assicura che l’invio delle armi a Kiev proseguirà sino a quando non si arriverà alla pace, spezza la sua lancia a favore dell’esercito europeo. Salvini è contrario all’intero pacchetto, esercito comune incluso, e ritiene che gli asset russi non solo non andrebbero adoperati per il prestito ma dovrebbero essere «scongelati» e restituiti subito a Mosca. Come del resto vorrebbe che fosse fatto anche Trump.
Insomma, camminare sulla fune tesa come fa da mesi era per Meloni già difficile.
D’ora in poi dovrà provare a farlo con la fune scossa selvaggiamente da entrambi i lati. Impresa difficile, probabilmente impossibile.





