La vendetta chiamata riforma
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16 Giugno 2023Dopo Berlusconi
di Angelo Panebianco
L’eredità politica è il centrodestra che Berlusconi forgiò e che ora vive di vita propria. Se, a partire da questa constatazione, ci si interroga sulle conseguenze della sua scomparsa, bisogna distinguere gli aspetti contingenti e quelli di più ampio respiro. Anche se per un po’, probabilmente, non accadrà nulla di serio, di destabilizzante, nella coalizione di governo (in politica l’istinto di sopravvivenza è sempre vincente) difficilmente Forza Italia potrà vivere ancora a lungo dopo la scomparsa del suo fondatore. Come mostreranno, probabilmente, i prossimi appuntamenti elettorali. Del resto, è quasi sempre questo il destino dei partiti personali o carismatici. Con poche eccezioni. Una delle più importanti in Europa fu il caso del partito gollista che sopravvisse a Charles de Gaulle. È prevedibile un aumento di conflittualità entro la maggioranza. Per il fatto che le divisioni fra i dirigenti di Forza Italia, che probabilmente emergeranno presto, si ripercuoteranno sull’azione di governo rendendo ancora più faticose di quanto già non siano le negoziazioni e le mediazioni nell’esecutivo e nei gruppi parlamentari. Ma nessuno sarà così pazzo da spingere la conflittualità al punto di mettere in crisi il governo. Uno degli effetti, probabilmente, sarà di obbligare Giorgia Meloni a cercare autonomamente (non potendo più contare sui buoni uffici di Berlusconi) le strade per dialogare con i popolari europei.
Insomma, la partita più delicata, nel dopo-Berlusconi, sarà per lei quella che si svolgerà in Europa.
Un test sicuramente interessante, e forse cruciale, per comprendere se e fino a che punto la scomparsa di Berlusconi cambia termini e condizioni del dibattito pubblico in Italia, riguarderà l’iter della riforma della giustizia preparata dal ministro Carlo Nordio. La polemica sulle leggi ad personam, un tempo carta vincente nelle mani di chi si opponeva agli interventi in questo ambito, è diventata un’arma spuntata, non più credibile. Sarà difficile ricondurre agli «interessi» personali di Berlusconi o a quelli del suo impero mediatico, l’abolizione del reato di abuso d’ufficio (peraltro fortemente voluta anche da molti amministratori locali del Pd) o la stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni. Per non parlare, se e quando ci si arriverà, del tema della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. È più probabile che l’opposizione, già debole e divisa, si divida al suo interno ancora di più. Difficilmente sorgerà un fronte compatto, come si è visto sorgere ai tempi di Berlusconi, così forte da bloccare ogni intervento significativo in ambito giudiziario.
Lo spirito pubblico italiano è stato sempre alimentato, con qualche intervallo, dalla presenza di «nemici». Nemici mortali. Nemici fra i quali la divisione si pretendeva antropologica prima che politica. Ovvero, la divisione politica era un sottoprodotto di una sottostante e più importante divisione antropologica. Riflettere su questo aspetto può contribuire a spiegare le differenze fra il disegno conservatore di Giorgia Meloni e quello perseguito da Berlusconi dopo la sua «discesa in campo» nel 1994. Nella prima fase — la «fase lunga» (su cui ha scritto Paolo Mieli, Corriere del 4 giugno) — della epopea berlusconiana, quella che si conclude quando Berlusconi deve cedere il governo a Mario Monti nel 2011, l’Italia vive una polarizzazione politica così radicale e feroce come non si conosceva dagli anni Cinquanta, il momento più acuto della «Guerra fredda» made in Italy, dello scontro fra comunisti e anti-comunisti. In entrambi i periodi l’Italia fu squassata da un «conflitto di civiltà». La particolarità del periodo berlusconiano è che la guerra di civiltà si svolse intorno al ruolo di un uomo. Né l’adesione entusiasta né gli odii feroci (i brindisi in cui ci si augurava la sua morte) erano spiegati dai «successi» della sua politica. Successi che non ci furono poiché la «rivoluzione liberale» che egli predicava rimase solo un insieme di slogan. Alle parole non seguirono i fatti. No, adesione ed odii dipendevano dalle caratteristiche dell’uomo, dalla sua storia, dalla sua fisicità e dal messaggio che mandava agli italiani. Il messaggio era il seguente: se liberato dai laccioli della politica, l’individuo può tutto, può essere il padrone del proprio destino. Un’idea che seduceva gli uni e faceva inorridire gli altri. Come è stato ricordato, Berlusconi era già detestato da una parte degli italiani ben prima del suo ingresso in politica. Fin dagli anni Ottanta. Perché in un Paese che faceva sì parte dell’Occidente ma in cui non mancavano allora tratti, e mentalità, da socialismo reale, l’inventore della televisione commerciale aveva sfidato, con successo, il monopolio statale (partitico) della comunicazione televisiva e la pedagogia di Stato che ne era la necessaria conseguenza. Un business che funzionava perché fondato sul presupposto che gli italiani non dovessero essere educati ma accettati per ciò che erano.
Quella di Giorgia Meloni è tutta un’altra storia. Il suo conservatorismo fa appello a valori comunitari, non all’individualismo, non alla valorizzazione degli individui e al loro diritto di perseguire, ciascuno per suo conto e secondo la sua vocazione, «la ricerca della felicità».
Per questo, nonostante ci sia chi pensa che il tema del fascismo e dell’antifascismo possa servire a ricreare il «nemico» nel solco di una collaudata tradizione italiana, l’operazione sembra avere poche probabilità di riuscire. Certo, il tema tornerà di attualità, e forse riprenderà quota, almeno entro certi limiti, se Meloni arriverà davvero a fare una proposta di riforma costituzionale. Qualcuno riuscì a parlare di fascismo persino di fronte al disegno costituzionale di Matteo Renzi. Figurarsi cosa accadrà quando sarà Meloni a proporre il suo. E tuttavia, anche in quel caso, sembra poco plausibile che possa essere ricreato nel Paese un clima di polarizzazione acuta e radicale come quello conosciuto nell’età berlusconiana.
Il conservatorismo comunitario non può avere la stessa carica eversiva, non può essere uno strappo rispetto alle tradizioni politico-culturali del Paese, lontanamente paragonabile allo strappo che fece Berlusconi nei momenti culminanti della sua ascesa politica. In questo senso, Meloni non è l’erede di Berlusconi.