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29 Aprile 2024Che Tempo Che Fa | Puntata 28 aprile 2024 | Intervista ad Antonio Scurati
29 Aprile 2024
di Mario Monti
Due passaggi parlamentari avvenuti in rapida successione la settimana scorsa hanno offerto l’immagine plastica di un poderoso uno-due assestato dall’Italia sul ring dove si valuta la credibilità di ciascun Paese della Ue. Purtroppo, nessuno aveva avvisato l’Italia che il suo avversario, contro il quale essa si è accanita con successo, era l’Italia stessa.
Martedì nel Parlamento europeo si è votato sul nuovo patto di stabilità e di crescita. Mercoledì nel Parlamento italiano si è votato sul Documento di economia e finanza. Procediamo a ritroso. In realtà, la Camera e il Senato non sono stati chiamati a votare veramente sul Def, che il governo ha deciso di non presentare nella forma consueta, ma a partecipare a un esercizio di sospensione, trattenendo il fiato. Una sospensione dovuta in parte ad alcuni oggettivi elementi di incertezza del quadro istituzionale e politico europeo. Ma la parte più insidiosa del clima di sospensione è — ahimè — made in Italy, fatta in casa. E ha due componenti: una componente generata nel passato e una componente che, temo, stiamo generando in questi mesi e in questi giorni, convinti forse di fare l’interesse del nostro Paese.
La componente generata nel passato è naturalmente il debito pubblico.
N on si vede sufficiente consapevolezza del problema del debito, né sufficiente volontà di affrontarlo, come prima o poi sarà necessario, forse con brusca durezza. Questo è un rilievo che muovo sì all’attuale maggioranza, ma forse ancora di più alle attuali opposizioni. Infatti, se andassimo a calcolare i millesimi di responsabilità dei vari partiti nella generazione per esempio del Superbonus (sarebbe un esercizio facile e utile anche pedagogicamente), le due maggioranze precedenti, alle quali non partecipava FdI, hanno fatto ben più di quello che si pensava umanamente fattibile in termini di creazione di disavanzo e debito.
Con esse, il Parlamento si era prodotto in qualcosa di molto ardito anche sul piano equilibristico, perché in un Paese nel quale, come è noto, è politicamente letale — giusto o sbagliato che sia — il mero pronunciare la parola «imposta patrimoniale», tutti coloro che hanno votato per il Superbonus hanno votato (senza saperlo, spero per loro) per un’imposta patrimoniale sulla casa, ma a rovescio, con il contribuente che paga un trasferimento di ricchezza ai proprietari di casa, i quali mediamente hanno una situazione di reddito e di ricchezza migliore di quella della generalità dei contribuenti.
Ciò ha determinato una grossa redistribuzione del reddito, perversa sotto ogni profilo. Leggevo in questi giorni un articolo che spiegava come, oltre alle conseguenze sul disavanzo e sul debito, che appaiono ogni giorno più gravi, e al citato effetto regressivo, il Superbonus abbia portato i benefici maggiori alle rendite e al Nord.
La seconda componente del disagio che avverto è la condotta complessiva del sistema politico italiano. E qui veniamo al primo colpo dell’uno-due, sferrato sempre contro l’Italia dagli eurodeputati italiani martedì scorso sotto gli occhi di tutta Europa. Al Parlamento europeo i deputati italiani, nel voto sul nuovo patto di stabilità e crescita, si sono in gran parte astenuti (partiti della maggioranza che sostiene il governo Meloni e Pd), il M5S ha votato contro e solo tre deputati hanno votato a favore. Nessun altro Stato membro ha offerto uno spettacolo di così grande disimpegno. Un messaggio chiaro, di sostanziale unità nazionale contro le regole di bilancio.
Su queste colonne e anche intervenendo in Senato nel dicembre scorso, alla vigilia del Consiglio europeo che avrebbe deciso in materia, avevo suggerito alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni di considerare seriamente se, nell’interesse dell’Italia ma anche dell’Unione europea, non fosse opportuno che ella opponesse il proprio veto a quell’accordo poco soddisfacente sulla nuova governance. La presidente Meloni ha ritenuto di non porre il veto (forse perché — lo so per esperienza diretta del Consiglio di giugno 2012 — non è psicologicamente agevole essere l’unico capo di governo che blocca un accordo altrimenti unanime e costringe i colleghi a risedersi di nuovo al tavolo per una complessa trattativa).
Ma adesso, dopo la performance dell’Italia per mezzo dei suoi europarlamentari, che impressione si saranno fatti i cittadini e i governi degli altri Paesi europei?
Qualche mese fa, trattandosi del Mes, il governo — pur sapendo bene che l’Italia, mediante un esecutivo precedente, aveva sottoscritto quel trattato e che occorreva il processo di ratifica — si è rifiutato di avviare tale processo. E ciò benché gli fossero stati porti su un vassoio strumenti di minimizzazione del rischio politico (ad esempio, chiedere la ratifica con la condizione che il Parlamento debba di nuovo pronunciarsi ove mai il governo intendesse fare uso degli strumenti del Mes).
Pertanto, siamo disconnessi sul piano del Mes. E ora siamo disconnessi anche sul piano del più importante strumento di governance economica europea, il nuovo patto di Stabilità. Ma adesso cosa succederà? Quando la presidente del Consiglio, che dalla nascita del governo in poi ha saputo crearsi una posizione di rispetto in Europa, andrà alla seduta del Consiglio europeo che dovrà chiudere in bellezza questo pacchetto (che a me non piace) che cosa dirà o farà? Aderirà alla posizione di tutti i suoi colleghi, come ha fatto in dicembre, facendo un torto agli europarlamentari del suo Paese? O ritratterà il proprio consenso al patto, alimentando una plateale immagine di inaffidabilità del nostro Paese?
Concludo con una riflessione più ampia. Quando il Governo italiano, il Parlamento italiano, autorevoli ex presidenti del Consiglio italiani come Mario Draghi e Enrico Letta, che scrivono rapporti chiesti loro dalle autorità europee, parlano positivamente della necessità di creare un debito europeo, necessità sacrosanta in determinate circostanze, ma chi volete che creda a loro, al di là della loro autorevolezza personale? Da quale Paese vengono?
Vengono dal Paese i cui parlamentari in Europa, al momento della verità, mettono a verbale con il loro voto la radicata insofferenza per ogni limite sul disavanzo e sul debito, che li contraddistingue individualmente e come appartenenti ad una cultura nazionale convinta, dopo decine di prove in contrario, che con il disavanzo e il debito pubblico, forse solo con essi, si ottengono crescita e occupazione.
Cerchiamo di riflettere se l’Europa sia perversa, prevenuta contro gli italiani, o se noi non stiamo assumendo — anche adesso che abbiamo capito quanto sia importante l’Europa — dei comportamenti sciatti, controproducenti e qualche volta non rispettosi del buon senso, della coerenza, di noi cittadini.