L’oro nell’anima
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12 Agosto 2024L’analisi
Aldo Cazzullo
L’America sembravamo noi. Non solo per il livello stratosferico del gioco; per la mescolanza. L’unità nella differenza. Ekaterina Antropova, nata in Islanda da genitori russi, abbraccia Sarah Fahr figlia di uno skipper tedesco e cresciuta sull’isola d’Elba, che abbraccia Myriam Sylla nata a Palermo da genitori ivoriani e cresciuta a Valgreghentino in provincia di Lecco, che abbraccia Alessia Orro avvolta nella bandiera sarda — «me l’ero portata da casa ma qui a Parigi è pieno di sardi e tutti mi offrivano una bandiera dei quattro mori» —, che abbraccia Paola Egonu nata a Cittadella da genitori nigeriani, il padre camionista di Lagos la madre infermiera di Benin City, già capitale di un grande impero africano. Tutte indossano la maglia azzurra. E tutte abbracciano Julio Velasco: padre peruviano morto di pancreatite quando aveva sei anni, madre argentina, un fratello desaparecido; arrivato in Italia nel 1983, nel 1989 già allenatore della Nazionale maschile. Inseguiva un oro olimpico da allora. Sostiene di non pensare mai alla finale persa ad Atlanta 1996, quando sembravamo imbattibili; in realtà ci ha pensato tutti i giorni. Ha dovuto attendere Parigi 2024 per dimenticarla, e conquistare il primo oro olimpico della pallavolo italiana.
Quando due numeri uno si incontrano, non è detto finisca bene. Questa Olimpiade ha consacrato Paola Egonu come la più forte pallavolista in attività: un torneo perfetto con la squadra perfetta, 22 punti in finale, in pratica un set vinto solo con le sue schiacciate. Velasco è da decenni l’allenatore più quotato. Spiega Giuseppe Manfredi, presidente del volley italiano: «Paola Egonu è sempre stata un fenomeno. Prima però c’erano le altre giocatrici, e c’era Paola Egonu. Adesso c’è Paola Egonu che gioca con le altre».
In mezzo c’è stato Velasco. Uno che conosce la solitudine dei numeri primi, per averla sperimentata. «È successo anche a me; solo che adesso ho più di 70 anni, e non me ne importa più nulla — racconta —. Paola è un personaggio. E quando diventi un personaggio, il personaggio vive di vita propria. Non sei più tu. Non lo controlli. Appartiene ad altri. E questo può essere un problema. Paola forse è ancora di più: è un’icona. Le offrono le pubblicità, la invitano a Sanremo. Fa bene ad andare. Però poi diventa una cosa da gestire».
Le questioni sono tre. La prima è tecnica. Spiega Velasco che, essendo la Egonu l’attaccante più forte, prima si tendeva a farle arrivare troppi palloni, il che implicava troppa responsabilità e troppe avversarie pronte a murarla; «così ho detto che bisognava far arrivare a Paola solo i palloni giusti, anziché cercarla necessariamente ogni volta». La seconda questione è mentale. Velasco ha lavorato per togliere un po’ di pressione alla sua giocatrice più rappresentativa, per prenderla su di sé, come faceva Mourinho nell’Inter del Triplete, e anche per valorizzare l’altra opposto, la Antropova — 21 anni, quattro in meno di Egonu —, che lo storico presidente del volley Carlo Magri considera il nostro vero fenomeno.
Della terza questione oggi nessuno parla. Ed è la questione politica. Paola Egonu in questi anni si è esposta molto, con coraggio. Ha denunciato il razzismo che esiste in Italia, come qui a Parigi ha ribadito Fiona May: e ha fatto benissimo. Ha querelato il generale Vannacci, e forse ha fatto meno bene, perché dire stupidaggini può non essere considerato reato. In questi Giochi Egonu non ha mai parlato. Ieri ha accettato per la prima volta di fermarsi all’uscita dal campo a rispondere alle domande. L’ha fatto con un filo di voce. Ha confermato l’importanza di Velasco sia sul piano tecnico, sia sul piano psicologico. Ma è parsa emotivamente coinvolta solo quando ha parlato di suo nonno scomparso da poco, cui ha dedicato la medaglia; «perché si è sempre preso cura di me, mi ha voluto bene, mi ha sostenuto, e mi ha detto che avrei vinto. Come si chiamava il nonno? Preferirei non dirlo».
Anche Velasco oggi evita la politica. Un giornalista che lo conosce bene, Flavio Vanetti del Corriere, racconta che una volta a tavola cominciarono a fargli domande su Che Guevara; finì alle tre del mattino. A chi scrive accadde di trovarselo seduto accanto ai Giochi di Pechino 2008, all’indomani della cerimonia inaugurale, che Velasco era stato tra i pochissimi a criticare: «Una cerimonia di regime. E il peggior regime è il regime che funziona». Lui ha conosciuto una dittatura inefficiente sul piano militare ed economico, ma efficientissima nella repressione. Velasco era tra i repressi. «Sono ancora un uomo di sinistra, ma non ideologico; forse perché lo sono stato troppo in gioventù. Non voglio stare tra le veline intellettuali: per questo in Italia non ho mai fatto politica, tranne quando ho dato una mano a Veltroni candidato premier, perché sapevo che avrebbe perso. C’è un errore che la sinistra non dovrebbe commettere: rinunciare al merito, e anche all’autorità. In Italia se un maestro sequestra il telefonino all’allievo gli danno del fascista. Ci si atteggia ad anarchici, per poi rifugiarsi nell’autocrazia: vent’anni di Duce, vent’anni di Togliatti, vent’anni di Berlusconi…».
In realtà, Julio Velasco e Paola Egonu hanno fatto politica anche portando questa squadra mista e perfetta all’oro olimpico. Perché da oggi chi nega che l’Italia possa essere un Paese multietnico ha un argomento in meno.