Fino al 2013 si trovava in un castello di Buriasco, non lontano da Pinerolo, di proprietà di un’anziana signora, Margherita Buzio. Sgarbi è stato lì più volte. È un suo fedelissimo, Paolo Bocedi, che si propone per comprarlo: la signora rifiuta. Poche settimane dopo, scopre che dei ladri si sono introdotti nel castello e hanno ritagliato e asportato la tela del Manetti. Al suo posto, trova una foto dell’opera attaccata con una spillatrice. La vittima denuncia il furto, avanza anche dei sospetti, ma il fascicolo viene subito archiviato dall’allora procura di Pinerolo. Passano dieci anni, e la tela rispunta restaurata a Lucca, ma con un dettaglio diverso: una torcia sul fondale che nella foto dell’Anticrimine non c’è. Il restauratore di Sgarbi, però, è sicuro: “Il quadro è quello, me lo portò un amico di Vittorio insieme a un trasportatore, arrotolato come un tappeto”.
Interpellato sul punto, il sottosegretario sosterrà che è suo: comprò una villa di campagna a Viterbo e ci trovò dentro un Manetti. “Uno ha la candela e l’altro no, sono diversi”, dice al Fatto senza riuscire a spiegare la coincidenza per cui proprio pochi mesi dopo il furto la “sua” versione si trovasse sul tavolo del suo restauratore di fiducia. Ma a smentirlo sono anche gli ex proprietari della villa e le troppe falle del testo curatoriale.
La candela-fantasma è solo l’ultimo enigma di una vicenda clamorosa che il Fatto e Report sono riusciti a ricostruire grazie a un’inchiesta congiunta che sarà trasmessa domenica prossima e che ha attirato l’interesse degli inquirenti. Seguendo un filo che parte da Lucca, passa per Brescia, Saronno, Roma, Viterbo, Firenze e poi Torino, si arriva alla domanda finale: possibile che il sottosegretario di Stato ai Beni culturali italiano esponga senza tema un’opera d’arte che è ricercata in tutta Europa, ma sta in casa sua?
LA TELA CHE SCOTTA
Tutto parte da Brescia, dove incontriamo Gianfranco Mingardi, restauratore di 68 anni che fin dagli anni Ottanta collabora con il critico-collezionista. Per lui ha messo mano a oltre 100 dipinti, molti dei quali mai pagati, compreso quello esposto a Lucca. La sua è una testimonianza chiave, tanto che dopo l’intervista è stato sentito per ore dai carabinieri del Nucleo tutela dei Beni culturali di Roma come persona informata dei fatti. “Nella primavera del 2013 mi chiama Vittorio – racconta – Ti mando un dipinto da mettere a posto, dice”. Gli verrà consegnato a metà luglio 2013 all’uscita dell’autostrada A4, appena fuori dal casello di Rovato, “senza telaio, arrotolato come un tappeto” aggiunge, mostrando le foto che fece prima di metterci mano e dopo aver terminato il lavoro. Precisa che Sgarbi venne anche di persona nel suo studio per sollecitarlo. La scheda degli interventi eseguiti riporta “prima pulitura, inserti, velinatura, telaio”. “Mi resi conto che quella tela scottava, gli chiesi allora un’attestazione di proprietà. Disse che me l’avrebbe mandata ma non lo fece, e quando protestai mi disse di star tranquillo, che tanto poteva raccontare che stava a villa Maidalchina, quella poi indicata nella mostra. Gliela restituii finita il 10 dicembre 2018”.
LA CONSEGNA
Mingardi racconta anche che a consegnargli il dipinto furono un trasportatore con furgone accompagnato in moto da Paolo Bocedi, un grande amico di Sgarbi. Per i lombardi è un nome noto: saronnese, dal ’74 passa come “uno dei primi imprenditori in Lombardia a ribellarsi alla mafia” e ancora oggi vive con una tutela di primo livello. Stretto tra il governatore Attilio Fontana e l’assessore Romano La Russa, l’11 luglio ha festeggiato la nomina a referente della Commissione antiusura di Regione Lombardia. L’amicizia con Sgarbi risale alla fine degli anni Novanta, gli fa da assistente, da autista. Nel 2003 fa notizia un’accusa di truffa allo Stato: dovendo ritirare a Genova una Fiat Panda destinata al sottosegretario Sgarbi, esce con quella del Procuratore capo. “Era tutto un equivoco”, chiarì poi l’avvocato Paolo Cicconi, che è anche l’avvocato di Sgarbi. Il suo nome finisce nell’indagine su presunti falsi venduti su Telemarket di Giorgio Corbelli, l’ex presidente del Napoli che nel 2004 si candidò alle Europee nella lista Sgarbi liberal Pri. Sgarbi fece da consulente per la difesa che gli valse l’assoluzione. Raggiunto a Saronno, Bocedi inizialmente non ricorda nulla del quadro e del castello, poi ha un lampo di memoria: “Ricordo di esserci andato accompagnato dall’autista di Sgarbi per vedere un quadro e chiedere a quando lo vendeva, per poi riferirlo a Sgarbi. Io non conoscevo la proprietaria”.
LA CANDELA FANTASMA
Del quadro che ha restaurato, Mingardi non sa più nulla fino alla mostra del 2021, quando una funzionaria della sovrintendenza lo chiama da Lucca: “Gianfranco, è quello che hai sistemato tu?”. Gli manda la foto, a lui sembra proprio quello. “Sono sicuro, è lo stesso dipinto e si vede anche dalle imperfezioni come le gocciolature, un bravo copista mai le avrebbe riprodotte”. E lo sa perché l’ha tenuto nel suo laboratorio per ben cinque anni, lo conosce palmo a palmo. Salvo per un dettaglio, la candela in alto a sinistra. “Sono certo che non c’era” dice al Fatto scuotendo la testa, convinto che sia stata dipinta (o fatta riemergere) con l’intento di differenziarlo il tanto che basta da poter dire “vedete che è diverso, non è quello rubato!”. In effetti nella foto allegata alla scheda dell’Interpol quella candela non c’è, e pure le misure del dipinto sono diverse: 247 cm per 220, mentre la scheda del restauratore riporta 230×205 e quella dell’opera esposta da Sgarbi a Lucca 233 cm per 204. Il dipinto, insomma, si è rimpicciolito di 15 cm per lato. “Per forza, è stato tagliato all’interno della cornice, con un taglierino!”, dice Mingardi sollevando in aria le foto. Spiega anche che asportandola a quel modo, la preziosa tela è stata danneggiata, strappata. “Quando l’ho srotolata per velinarla mancava addirittura un pezzo, solo una volta disteso mi sono accorto che era stato attaccato sul retro con lo scotch”.
LA SCHEDA CHE NON TORNA
Tra vero e verosimile spuntano altre differenze. La scheda della mostra firmata da Sgarbi e accreditata dal professor Marco Ciampolini, esimio conoscitore del Manetti e della pittura senese, indica una provenienza certa. “Stava nella villa Maidalchina di Olimpia Pamphilij vicino a Viterbo, ora proprietà della Fondazione Cavallini Sgarbi, eretta tra 1615 e 1625. Il dipinto è ricordato, genericamente fra altri quadri, nell’inventario dell’11 ottobre 1649, redatto dal notaio Cosimo Pennacchi, dei beni di Andrea Maidalchini, fratello di Olimpia. Le opere d’arte, fra le quali il celebre Busto di Innocenzo X di Alessandro Algardi, passarono poi a Giulio Bussi e ai conti Gentili”. “Viene da Villa Maildalchina”, ripete Sgarbi anche alle telecamere di Report, sostenendo ancora di aver comprato la villa e averci trovato dentro un Manetti. Ma quel testo curatoriale sembra un castello in aria.
LA VILLA ERA UN RUDERE
“La mia famiglia tenne la villa per 20-25 anni – racconta l’ex proprietario Luigi Achilli – nel 2000 la vendemmo agli Sgarbi ed era già un rudere abbandonato, tutto aperto, non c’era neppure un cancello o una recinzione. Era alla mercé di tutti”. E così è oggi, ci siamo stati senza riuscire a raggiungerla per gli sterpi. Lo conferma anche Mauro Galeotti, giornalista e storico di Viterbo: “Vado per i 73 anni e a villa Maidalchina da ragazzo sono stato svariate volte, era già spogliata di tutto. Era stata abitata da contadini, le pare che lasciavano dei dipinti?”. All’archivio di Viterbo il Fatto e Report hanno visionato l’atto citato del 1649, il direttore Angelo Allegrini lo sfoglia: non risulta affatto “generico”, cita vari dipinti ma non quello. E il busto ricordato nella scheda? Il gallerista di Firenze Giovanni Pratesi conferma di averlo venduto nel 1985 e che nella villa stava per davvero, ma nessun quadro a esso collegato, peraltro mai indicato in inventari e atti notarili delle nobili famiglie citate nel catalogo.
LA DENUNCIA
E allora, da dove spunta questo “inedito”? I carabinieri del Nucleo tutela Patrimonio culturale di Roma individuano nella loro banca dati il corrispettivo della scheda dell’Anticrimine europea. È una denuncia per furto sporta al comando dei carabinieri di Vigone, non lontano da Pinerolo, ed è datata 14 febbraio 2013. Alla denuncia corrisponde un fascicolo contro ignoti aperto dalla Procura di Pinerolo ma archiviato dopo una settimana. Girandola di telefonate e salta fuori la denunciante. È la nostra signora Margherita Buzio, 85 anni, che vive in una bella villetta di Bugliasco con annesso un castello del 1300. È la vedova del proprietario dell’immobile che fino al 2008 aveva un rinomato ristorante. La signora Buzio, diffidente, parla dalle inferriate. Le mostriamo la foto della Cattura di San Pietro: “Sì, è quella”, dice.
IL RACCONTO DELLA VITTIMA
Conferma di essere stata proprio lei, ormai dieci anni fa, a firmare la denuncia per furto. “Hanno tagliato la tela, l’anno arrotolata e l’hanno portata via”, racconta specificando che al Castello c’erano diversi quadri, ma “l’unico rubato è quello”. Vinta la diffidenza, la signora apre le porte del castello. Mentre si avvicina, racconta l’epoca d’oro: “Anche Sgarbi era venuto qui a presentare il suo libro, io non c’ero ma c’era il gestore. Li ha visti lui questi quadri, li aveva anche valutati tutti, tranne questo”. E che fine ha fatto? “Ai primi di febbraio del 2013 i ladri sono entrati di notte, indisturbati. Avevamo chiuso da pochi mesi, aveva nevicato e per terra c’erano le tracce. Hanno scavalcato il muro, superato il fossato e rotto la catena del cancello”. Passato il cortile interno, si arriva alla sala da pranzo. Pochi gradini ancora, ed ecco il luogo del delitto, rimasto esattamente così come si era presentato alla signora. C’è ancora la grande cornice del ’600, ma al posto del dipinto c’è una foto stampata su telo di plastica e attaccata con delle graffette.
I SOSPETTI
“Era troppo pesante per portarlo via così e l’hanno tagliato, sostituendolo pensavano che non me ne sarei accorta”, dice la signora Buzio, mentre dal telaio spunta ancora un lembo dell’originale strappato. Signora, sospetti? “Erano venuti tre signori, uno diceva che gli interessava il Castello e un altro voleva sapere se il quadro era in vendita. Due volte son venuti per comprarlo, ma ho sempre detto di no e poi non ho visto più nessuno”. Neppure lei sapeva il reale valore dell’opera “mi avevano detto 25 mila euro”. Recuperata la denuncia dell’epoca, il nome di Sgarbi, insospettabile, non c’è. Ma ecco il colpo di scena che lo inchioda a questa storia, insieme a Bocedi, l’amico e fidatissimo paladino contro l’usura. “Preciso – si legge in coda alla deposizione della signora – che il sig. Bocedi Paolo, in occasione delle sue visite, notando il quadro, mi chiedeva se era in vendita, gli rispondevo che lo avrei ceduto solo assieme al Castello”.
Il suo dipinto riapparirà, magicamente, alla mostra di Sgarbi 10 anni dopo. Ma con la candela che non c’era e come “inedito” di sua proprietà.