Come accade ormai sempre più spesso, abbiamo digerito velocemente gli esiti delle elezioni. Niente di nuovo sotto il sole. Ancora una volta la sinistra soffre e la destra trionfa. Tutte le analisi proposte sono condivisibili, senza dubbio. Ma spesso sono coniugate al presente, come se questa fosse un’ennesima “prima volta”.
Quel che resta è una serie di nomi che hanno barattato la loro carriera politica con un minoritarismo culturale, col risultato che se esistono ancora dei politici di sinistra, non si dà più una politica di sinistra. Bisogna avere il coraggio di affiancare a questa analisi spietata una sorta di ricerca genealogica. Che cosa è accaduto, in tutto questo tempo?
Sinteticamente: che l’antagonista della sinistra – che non è la destra, ma il capitalismo – ha innescato giganteschi salti di qualità. Ha vinto il suo conflitto, ma non ha concesso ai propri nemici nemmeno la dignità della resa. Il conflitto di classe è diventata una sottomissione di classe. A partire da questo scenario, ci sono tre domande che non possiamo più eludere.
La prima è molto semplice: perché la sinistra scompare nell’epoca del trionfo del capitalismo? Perché è in crisi quando le sue tre parole chiave – lavoro, democrazia, pace – sono drammaticamente messe in discussione da una contingenza di sistema che impoverisce i lavoratori, svuota di senso l’esperienza della democrazia, rimette la guerra al centro del mondo?
Forse perché in questi anni buona parte dei politici – e degli elettori rimasti – si sono convinti che la sinistra debba essere accompagnata da un sacco di aggettivi – riformista (proprio in questi giorni Prodi ha rivendicato con orgoglio questa identità), ambientalista, dei diritti – ma non debba più pensarsi come anticapitalista. In altri termini: se il capitalismo ha vinto la sua guerra, è inutile continuare a opporvisi. Ma non dovrebbe essere proprio il contrario?
Proprio perché il capitalismo ha vinto ma non ha concesso alcun accordo, non possiamo fare a meno di essere anticapitalisti. Che vuol dire qualcosa di neanche troppo scandaloso, intendiamoci. Semplicemente riconoscere che è necessario opporsi a un modello economico in cui la ricerca esasperata e totalizzante del profitto produce distruzione e salvaguardare sfere della società dalla colonizzazione incessante del mercato capitalistico.
La seconda questione ha a che fare con quello che tradizionalmente è il referente politico della sinistra. Quest’ultima può avere senso quando organizza il malessere e permette il passaggio da un soggetto atomizzato a uno organizzato collettivamente.
Nessuno può fare la rivoluzione da solo. La nozione di classe, ormai desueta, aveva proprio questo significato: contrapporre all’individualismo della società capitalistica una produzione di soggetti universali. Giorni fa conversavo con una persona che lavora al sindacato. Con estrema lucidità mi confessava la sua difficoltà più rilevante: tutti quelli che si rivolgono al sindacato si limitano a chiedere supporto per la loro situazione particolare e quando si tratta di estendere quella rivendicazione agli altri, si ritirano immediatamente.
Quello che prima era un luogo in cui si costruivano legami, è diventato oggi un luogo in cui si difendono diritti individuali. E non per colpa dei sindacati, ma per un’inibizione sociale a inventare una soggettività politica in grado di difendere i diritti di tutti. Che scelta può fare la sinistra, in queste condizioni? Mettersi a concorrere con la destra sul mercato dei diritti individuali oppure trovare un modo per coltivare ancora l’utopia di una soggettività politica che non sia di uno ma di molti? La sinistra non può accontentarsi di sostituire la classe con l’individuo, e se non trova urgentemente un’alternativa è destinata a sparire.
La terza questione può aiutarci a rispondere a tutte le altre. Ho letto in questi giorni delle pagine in cui Ingrao si confrontava criticamente con Trentin. Sono pagine attualissime.
Quali erano i termini del loro confronto? In breve, secondo Trentin la crisi della sinistra è dovuta a una lettura “statalista” dei processi di liberazione, unita a un’operazione meramente “redistributiva”. Una doppia critica che può essere ancora utilissima.
La sinistra avrebbe preso una direzione sbagliata nell’interpretare i conflitti sociali. Invece di andare verso il basso, riconoscendo una profondità delle cause che investe la concretezza delle nostre forme di vita, è andata verso l’alto, credendo sia sufficiente affidarsi allo Stato per cambiare le cose. Una fiducia tremendamente moderna nella capacità salvifica della politica.
Tutt’al più ha rivendicato la necessità della redistribuzione: che tutto sommato è una forma attraverso cui lo Stato manifesta ancora il suo primato nei confronti della società. Ingrao – fiero uomo del novecento – oppone a questa sincera autodenuncia di Trentin una sorta di pervasività della politica: non c’è società senza politica.
E credo che buona parte degli intellettuali militanti sarebbero ancora d’accordo con lui. C’è invece da chiedersi se l’idea che solo la politica possa salvarci sia ancora sensata. Se questo nostro parlare di politici e politica di sinistra non sia ormai un lapsus della storia. E se non sia più utile ripartire dalla consapevolezza che la politica non basta più e che, dunque, è ricostruendo una società differente che la sinistra possa recuperare credibilità. Vasto programma, me ne rendo conto. Ma in realtà si potrebbe cominciare riconoscendo un passaggio iniziale.