La stampa non è il coro del potere
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29 Gennaio 2024
di Angelo Panebianco
G iusto trent’anni fa Silvio Berlusconi ufficializzò, con un celebre messaggio televisivo (26 gennaio 1994) il suo ingresso in politica. È forse utile riconsiderare come reagirono a un evento che avrebbe cambiato per sempre la storia italiana gli osservatori dell’epoca. Chi scrive si occupò della «discesa in campo» di Berlusconi in due editoriali apparsi sul Corriere rispettivamente il 9 dicembre 1993 (Berlusconi aveva appena comunicato che il suo nuovo partito era bello e pronto) e il 27 gennaio 1994, il giorno dopo il fatidico messaggio. Il primo editoriale aveva un titolo eloquente: «Lasci perdere, Cavaliere». Dei quattro principali argomenti da me usati in quei due articoli, il primo si sarebbe rivelato totalmente sbagliato, il secondo sbagliato a metà, e gli ultimi due corretti. Come tanti altri feci l’errore di credere che quello di Berlusconi sarebbe stato un insuccesso elettorale. In quel momento non c’erano ancora sondaggi disponibili. Scrissi che, a mio parere, la sua discesa in campo avrebbe ritardato la formazione di uno schieramento alternativo alla sinistra e avrebbe dato a quest’ultima una formidabile arma elettorale: Berlusconi sarebbe diventato il Belzebù, l’Uomo Nero contro cui mobilitare gli elettori. Berlusconi diventò effettivamente per la sinistra, nel corso della campagna elettorale, l’Uomo Nero ma ciò non gli impedì di sbaragliare la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto.
C ome altri, avevo sottovalutato i cambiamenti messi in moto dalla fine dei partiti tradizionali e i potenziali effetti della nuova legge elettorale (maggioritaria). L’argomento sbagliato a metà era che, siccome in politica due più due non fa quasi mai quattro, l’idea di allearsi con la Lega di Bossi al Nord e con il partito di Gianfranco Fini al Sud non poteva funzionare. Sul piano elettorale, invece, tale bislacca alleanza funzionò benissimo, portò Berlusconi alla vittoria. Egli ebbe ragione e io torto. Sul piano politico, ebbi ragione io: l’alleanza si sfaldò solo pochi mesi dopo la vittoria elettorale. Gli argomenti che usai e che si rivelarono corretti furono i seguenti. Osservai che la ragione per cui in genere gli imprenditori che entrano in politica si attirano addosso un mare di guai dipende dal fatto che nessuno può levarsi dalla testa l’idea che, qualunque decisione prenda l’imprenditore trasformatosi in uomo di governo, tale decisione serva a tutelare i suoi interessi economici. Magari non sarebbe così, magari l’accusa sarebbe ingiusta, ma in politica conta ciò che pensa la maggioranza delle persone. Mentre non è percepito come illegittimo difendere e rappresentare in politica interessi economici altrui, lo è invece difendere i propri. Scrissi che, secondo me, Berlusconi avrebbe dovuto fare ciò che stava facendo Carlo De Benedetti con i suoi giornali: così come quest’ultimo appoggiava lo schieramento di sinistra, Berlusconi avrebbe dovuto appoggiare uno schieramento di destra. L’altro argomento che usai e che ritengo corretto è che Berlusconi stava reagendo al rischio di un «esproprio proletario»: temeva che una vittoria della sinistra avrebbe messo in pericolo le sue aziende.
Molti hanno tentato un bilancio del Berlusconi politico. Se si vuole essere equi bisogna considerare sia gli aspetti positivi che quelli negativi. Per quanto riguarda i primi, Berlusconi fu l’uomo che creò dal nulla (e in barba al diffuso scetticismo dell’epoca, ivi compreso il mio) il centro-destra. È grazie alla sua discesa in campo che l’Italia ha potuto sperimentare ciò che non aveva mai conosciuto in precedenza: l’alternanza fra schieramenti contrapposti. L’altro aspetto positivo fu che con Berlusconi nel 1994 soffiò forte nel Paese un «vento del Nord» che rompeva con una antica diffidenza (aveva accomunato, per decenni, democristiani e comunisti) nei confronti del mercato e dell’impresa privata. Con Berlusconi e Forza Italia entrarono in politica uomini e donne che venivano dal settore privato e che erano assertori, contro i tabù della prima repubblica, dell’economia di mercato e nemici dell’economia pubblica, di Stato. Fu una innovazione culturale prima ancora che politica.
Il principale aspetto negativo fu la drammatica divaricazione fra le promesse e le realizzazioni. Da un lato si predicava la «rivoluzione liberale», dall’altro si governava come si era sempre fatto: usando la macchina pubblica per garantirsi il consenso elettorale. La rivoluzione liberale non ci fu. Prevalse la protezione dei tanti interessi corporativi che un tempo sotto l’ombrello democristiano e ora sotto quello berlusconiano osteggiavano qualunque ipotesi di riforma. Non venne riformata la pubblica amministrazione, non vennero smantellati i mercati chiusi e protetti, non venne ridotto il peso dello Stato nell’economia.
In compenso, la polarizzazione politico-ideologica raggiunse una intensità che ricordava i primi tempi della Guerra fredda. Ci ritrovammo immersi in uno scontro di civiltà. C’erano solo due fazioni in feroce lotta fra loro, berlusconiani e anti-berlusconiani. E chiunque non volesse partecipare a quel gioco al massacro era considerato un traditore da entrambe le fazioni.
Né si può tralasciare il ruolo della magistratura. A parte le tante azioni giudiziarie contro la persona di Berlusconi, è un fatto che le sue aziende furono, fra le italiane, le più indagate in assoluto.
Con Berlusconi inizia un fenomeno che avrebbe in seguito interessato altre democrazie: l’imprenditore che, anziché limitarsi a condizionare dall’esterno le forze di governo o di opposizione, converte le sue risorse economiche in risorse politiche, si serve della sua ricchezza personale per dare vita a una propria impresa politica con cui tentare la scalata al potere: un fenomeno che ha creato problemi e tensioni che le democrazie un tempo non conoscevano. Nel caso italiano, ciò era aggravato dal fatto che l’imprenditore in questione era anche colui che controllava una fetta importante del sistema della comunicazione.
A parte la novità rappresentata dall’imprenditore della comunicazione che entra in politica, ciò che si scatenò a seguito della «discesa in campo» fu l’esasperazione di un vizio di cui non ci siamo mai liberati: in Italia non esistono avversari. Esistono solo nemici. Nemici mortali. Ciò nonostante, la democrazia c’è da tanto, ha messo radici, riesce a sopravvivere. Come si spiega? Magari, chissà?, gli storici che in futuro studieranno l’avventura politica di Berlusconi risolveranno l’enigma.