Italo Svevo racconta che un giorno, a Parigi, James Joyce incontrò Marcel Proust. A suo giudizio, ne venne fuori solo la grande differenza tra i due autori e tra i loro rispettivi universi: «Una notte il Proust, già tanto sofferente, si risolse ad uscire da quella casa, dalle finestre ingessate dei Champs Elysées, probabilmente costrettovi dal bisogno di un’inchiesta per poter finire qualche sua frase o qualche suo inciso su qualche avvenimento reale. Fece la conoscenza del Joyce, e distratto dal proprio bisogno subito gli domandò: “Conosce lei la principessa X?”. “No” rispose il Joyce. E il Proust: “Conosce lei la principessa Y?”. “No” rispose il Joyce “né me ne importa affatto”. Si separarono e non si rividero più».

La storiella sembra banale: un pettegolezzo di cronaca che ha credito per la statura degli interlocutori. Eppure, in pochi passaggi, svela la distanza che separa l’autore dei salotti e dell’aristocrazia dallo scrittore a suo agio nel regno delle letterature. L’indifferenza reciproca si riversa nel fastidio che la battuta di Joyce indica e che chiude ogni dialogo.

Incontri, risentimenti
La storia letteraria è costellata di contrapposizioni tra autori, grandi alla stessa maniera ma separati da idee opposte. La lotta può diventare un risentimento pungente, che identifica un antagonista e ne fa un bersaglio. Giacomo Leopardi, per esempio, pubblica le Operette morali nel 1827, lo stesso anno dei Promessi sposi. Il confronto tra le rispettive opere diventa esplicito e Leopardi stesso ne dà testimonianza. Il 30 agosto scrive da Firenze a Pietro Brighenti: «Qui si aspetta Manzoni a momenti. Hai tu veduto il suo romanzo, che fa tanto rumore e val tanto poco?». Il giudizio negativo esalta implicitamente il valore delle Operette, fondate sul principio, opposto a quello del cristiano Manzoni, che «in metafisica e in morale, la ragione non può edificare, ma solo distruggere».

Se poi la rivalità prende la forma dell’odio, gli effetti sono ancora più potenti e meritano interesse. Valerio Magrelli, nel suo Proust e Céline La mente e l’odio (Einaudi Stile libero, pp. 152, € 15,00) mette a confronto i due scrittori francesi evocati nel titolo e utilizza l’odio come chiave per entrare nell’universo di Céline. Il sentimento di cui si parla non ha nessuna connotazione personale. Quando Proust muore, d’altra parte, Céline non ha ancora nessuna riconoscibilità di autore. L’odio non coinvolge le affezioni private di uno contro l’altro, ma prende la forza di una «nozione estetica, valore artistico, motore stesso dell’opera letteraria». L’ostilità si rovescia contro chi, tanto più se famoso, è scelto come bersaglio. Victor Hugo osserva che «gli unici odi sono letterari. Al loro confronto quelli politici non valgono niente». La contrapposizione esalta le idee diverse di letteratura o di arte che gli scrittori esprimono e che sono messe a nudo. Nella logica del libro, cercando le ragioni di cui l’odio di Céline si alimenta, Magrelli allestisce due vite parallele. Scava dentro l’opera di ognuno e mette in gioco le ragioni che danno identità all’esistenza di entrambi.

Contro ogni idealismo
La prima questione riguarda il grande tema di Céline, a partire dal Voyage au bout de la nuit. Lo si può riassumere nelle considerazioni consegnate a una lettera a Marie Canavaggia: «Bisogna vedere gli uomini come cani. Ciò che fanno, abbaiano, ringhiano, spiritualmente non significa niente, meno che zero». Contro ogni idealismo, Céline racconta la vita degli uomini al grado zero, ridotta all’essenzialità di bisogni e di pulsioni elementari. Gli impulsi individuali reagiscono alla ferocia delle guerre e alla violenza innalzata a legge dell’esistenza. Gli esseri umani sono creature dolenti, che difendono la pelle da minacce senza fine. All’inizio del racconto c’è l’emozione e le parole arrivano solo dopo.

La prepotenza delle pulsioni sarebbe insufficiente se non si congiungesse con un’«autentica nevrosi linguistica» e con la «sontuosa frenesia» di uno stile senza uguali nella tradizione letteraria francese. Céline stesso rivendica l’originalità delle sue scelte e osserva: «Tutto il mio lavoro è consistito nel cercare di rendere la prosa francese più sensibile e tesa, precisa, sferzante e cattiva, iniettandole un linguaggio parlato, il suo rimo, il suo tipo di poesia e di tenerezza malgrado tutto, di resa emotiva». L’obiettivo è «mascherare in musica l’orrore del vivere». Mascherare non significa cancellare. Implica piuttosto la scelta di un suono e di una voce che diano a quell’orrore la presenza più concreta.

Nature opposte
Céline trova in Proust lo scrittore rivale: per la natura dei protagonisti e per il modo di metterli in scena. Il giudizio è esplicito: «Proust si occupava delle persone di mondo, io mi sono occupato delle persone che mi capitavano sotto gli occhi e sotto la mia osservazione».

L’architettura delle frasi in Proust cerca uno sviluppo tentacolare, opposto alla melodia spezzata dell’altro. E l’odio della cui pena c’è traccia nelle pagine della Recherche nasce dal tradimento della persona amata e prende il nome devastante di gelosia.

Il duello tra due autori, che per Lévi-Strauss donano entrambi «inesauribile felicità», non prevede un vincitore e un vinto, ma una lotta interminabile. Adorno nei Minima moralia osserva che «non per niente gli antichi hanno riservato il pantheon del conciliabile agli dei o alle idee, mentre hanno costretto le opere d’arte all’agone reciproco, l’una nemica mortale dell’altra».