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Base riformista spinge per il governatore dell’Emilia-Romagna. La sinistra, contraria, vorrebbe un rinvio del congresso. Le mosse delle correnti in vista della direzione di giovedì prossimo.
M. T. M.
ROMA Nella direzione del Partito democratico fissata per giovedì della prossima settimana si fronteggeranno due partiti.
Il primo è quello del congresso in tempi brevi. Ci punta «Base riformista» di Lorenzo Guerini che non fa mistero di volere Stefano Bonaccini alla segreteria e perciò mira ad accelerare le tappe.
Anche Enrico Letta, che pure non è un supporter del presidente della giunta regionale dell’Emilia-Romagna ritiene inopportuno mandare le cose troppo per le lunghe: «La situazione è delicata non possiamo lasciare il Pd in sospeso», ha spiegato ai suoi il segretario uscente.
Ma la sinistra interna, che non vuole Bonaccini leader e non ha al momento un suo candidato (l’ipotesi Elly Schlein si sta sgonfiando rapidamente, quella di Beppe Provenzano è troppo divisiva) sta cercando di posticipare il congresso. Chiede che sia l’attuale Assemblea nazionale del partito a gestire una fase di grande discussione e riflessione, una fase costituente, al termine della quale Articolo 1 di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza potrebbe ufficialmente rientrare.
Andrea Orlando, Goffredo Bettini, Provenzano (che ieri ha avuto un lungo colloquio con Bersani) hanno bisogno di prendere tempo. E il ministro del Lavoro sta valutando anche l’eventualità di una sua candidatura alla guida della Camera (benché al Nazareno pensino che Nicola Zingaretti in quel ruolo sarebbe meno divisivo). Silente, per ora, Dario Franceschini che sta studiando le mosse da fare.
Ma mentre questi due partiti si fronteggiano, dentro il Pd cresce la sensazione di essere giunti a quello che Orlando definisce un «punto di non ritorno». Il governatore della Campania Vincenzo De Luca dipinge con queste parole la situazione: «È ormai in gioco il carattere di forza nazionale del Pd. Rischiamo di diventare un partito meno che regionale, condannato all’ininfluenza».
La crisi dem appare profonda: torna ad agitarsi lo spauracchio della scissione tra un pezzo del Pd che guarda più ai riformisti del Terzo polo e l’altro che invece ammicca ai grillini. E si teme di finire stritolati tra i 5 Stelle rinvigoriti e il duo Renzi-Calenda. «Dobbiamo definire la nostra identità, senza farci lacerare dai grillini e dal tandem Azione-Italia viva», afferma il sindaco di Firenze Dario Nardella, che non ha chiuso la porta alla possibilità di una sua candidatura alla segreteria.
Già, perché in questa atmosfera in cui si rincorrono paure e tensioni, fioccano in continuazione candidature vere o presunte, che fanno dire a Matteo Orfini che «con una media di un paio di candidature al giorno possiamo arrivare a una sessantina di candidati per un congresso che non è stato ancora convocato. Mi pare geniale, abbiamo capito tutto». Anche Francesco Boccia critica il fiorire delle candidature: «Dobbiamo fare un congresso sui temi, evitiamo di fare il Palio di Siena».
Alessia Morani ex deputata di «Base riformista», candidata in un collegio a perdere, fa una sorta di chiamata di correo: «La sconfitta del Pd non è responsabilità del solo Letta, ma di tutto il gruppo dirigente. Matteo Ricci, che si è candidato, non è un passante, è stato nelle segreterie nazionali degli ultimi 4 leader, è uno dei dirigenti protagonisti delle scelte che ci hanno portato fin qui». Dunque, il Pd litiga e si lacera. E se dovesse veramente realizzarsi l’ipotesi che il centrodestra affidi la presidenza della Camera a un esponente dell’opposizione i dem si troverebbero paradossalmente in difficoltà, divisi come sono.