Paolo Russo
Con 15 Regioni dai conti in rosso, 7 che non riescono a garantire i livelli essenziali di assistenza, medici sempre più in fuga verso la pensione e lo stress di chi resta che fa commettere 100 mila errori all’anno in corsia, la sanità sembra andare sempre più alla deriva. L’inflazione, in quattro anni, nel 2024 si sarà mangiata 15 miliardi di finanziamenti. Così tre Regioni su quattro non riescono più nell’impresa di tenere i bilanci in pareggio, come documenta il recente rapporto sul Coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti. Che non tiene conto del miliardo e passa di rimborsi mai arrivati da parte delle industrie biomedicali, ma regolarmente iscritti in bilancio dalle Regioni. Nonostante questo le perdite aumentano: erano di 800 milioni nel 2020, sono arrivate a un miliardo e passa l’anno successivo, per toccare quota un miliardo e 470 milioni nel 2022. Con previsioni per quest’anno ancora più fosche.
Intanto con i bilanci 2022 riportati ancora in blu sono rimaste solo Lombardia, Veneto, Umbria, Marche, Campania e Calabria. Ma in molti casi si tratta di avanzi irrisori. Tutte le altre Regioni sono invece in rosso: quelle messe peggio sono le Province autonome di Trento e Bolzano, rispettivamente a -243 e -297 milioni, la Sicilia a -247 e il Lazio, che accusa una perdita di oltre 216 milioni.
Fino a che si naviga su queste cifre è possibile ripianare gli ammanchi con qualche economia su altre voci di spesa o con dei ritocchi all’insù delle addizionali Irpef regionali. Ma con deficit più consistenti certe alchimie non bastano più, anche perché la spesa sanitaria assorbe da sola circa l’80% dei bilanci regionali. Per cui c’è il fondato timore che il 2024 diventi l’anno dei commissariamenti e dei relativi piani di rientro in sanità. Con tutto quel che segue in termini di tagli alle prestazioni e blocco delle assunzioni. Tra l’altro, come documentano sempre i magistrati contabili, le Regioni in piano di rientro sono quelle che vedono crescere più lentamente la spesa sanitaria per singolo cittadino, facendo aumentare così le diseguaglianze territoriali già marcate, visto che la spesa pro-capite va dai 2.836 euro dell’Alto Adige ai 2.041 della Calabria.
Quando il piatto piange non c’è poi da stupirsi se si fa anche fatica a garantire i livelli essenziali di assistenza, i cosiddetti Lea. Secondo l’ultimo monitoraggio effettuato dal ministero della Salute nel 2021, sono 7 le Regioni che non sono riuscite a garantirli: Alto Adige, Molise, Campania, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Calabria, con le ultime tre peggio delle altre visto che la bocciatura riguarda tutte le aree assistenziali esaminate, a parte quella della prevenzione per la Sardegna, che va però male nell’assistenza ospedaliera e in quella distrettuale del territorio. Con la penuria dei finanziamenti si potrà obiettare che 7 bocciature e 14 promozioni non sono poi un risultato da buttar via. Ma qui valgono le obiezioni mosse da tempo dalle associazioni degli assistiti, come Cittadinanzattiva, che da tempo denunciano lo scarso peso dato alle liste d’attesa nella valutazione del rispetto dei Lea.
Sulla spinosa questione è ancora la Corte dei Conti a denunciare carenze e ritardi. Dopo i milioni di prestazioni saltate durate l’emergenza Covid, il recupero riguardo i ricoveri ospedalieri si è fermato al 66%, con Nord e Centro però rispettivamente al 72 e al 78% mentre il Sud è inchiodato al 40%. Stesso discorso vale per visite e analisi, con un recupero che a livello nazionale è del 57%, ma che vede il Nord all’81%, il Centro al 79% e il Sud a uno striminzito 15%. E mentre nelle Regioni economicamente più forti chi non si è servito del servizio pubblico nella maggioranza dei casi si è diretto pagando verso il privato, nel Meridione – dove questa disponibilità di spesa non c’è – il grosso delle prestazioni saltate in Asl e ospedali si è tradotto in molti casi in rinuncia alle cure tout court. L’aspetto che poi fa più rabbia è che nonostante il governo abbia stanziato 500 milioni per il taglio delle liste di attesa, 152 non sono stati spesi, in pratica un euro su tre. Ma anche in questo caso con grandi differenze territoriali, visto che al Nord è stato usato il 92% delle risorse, al Centro il 57% mentre al Sud solo il 41%.
Con i soldi che mancano, le inefficienze che pesano, ad aggravare il tutto c’è la fuga dei medici, che lascia sempre più sguarnite le nostre strutture. I dati appena pubblicati dell’Enpam, l’ente previdenziale dei camici bianchi, sono sconfortanti. Dal 2014 al 2022 infatti i dottori che hanno lasciato per andare in pensione – o per raggiunti limiti di età o perché stanchi al punto da voler attaccare in anticipo il camice al chiodo – sono aumentati del 257%. Solo lo scorso anno la spesa per prestazioni previdenziali dei medici è salita del 14,4%. «Il vero problema è però il loro mancato rimpiazzo», rimarca il presidente dell’Enpam, Alberto Olivetti, che giudica «indispensabile rendere più attrattiva la professione medica». Facile a dirsi ma meno a farsi, quando per i medici ospedalieri si fatica a chiudere un contratto scaduto nel 2021 e che mette sul piatto appena 240 euro di aumenti mensili lordi, quando per i bancari, dirigenti esclusi, si ragiona su 425 euro di aumento. Così non deve poi stupire che i medici siano sempre meno e costretti a turni massacranti. Il 56,8% di loro salta i riposi settimanali e il 26,7% non fa nemmeno le 11 ore di riposo tra un turno e l’altro, come prescritto da legge e contratto. Tutto questo a discapito degli assistiti, perché secondo un recente studio della Johns Hopkins University il prezzo da pagare al fatto che un sanitario su due in Italia lavora sotto stress sono 100 mila errori in corsia che si ripetono ogni anno.