Quando si riflette sul senso della disciplina, sull’impatto della storia dell’arte nel presente, su cosa significava ieri e quale sarà il suo futuro, non si può dimenticare che i reperti figurativi sono testimonianze silenziose che vanno decifrate con pazienza dentro vaste reti di riferimenti. A qualche risultato si arriva quando i mediatori, cioè gli storici dell’arte, gli insegnanti, i divulgatori, riescono a far parlare il manufatto, tracciando in qualche misura anche la storia del gruppo sociale dove esso ha avuto origine. Una storia che può poi essere messa a fuoco per spettatori dalle esigenze e dalla preparazione differente, con diversi mezzi e approfondimenti.

Un ottimo esempio di metodo è nella mostra La Voce delle Ombre. Presenze africane nell’arte dell’Italia settentrionale (XVI-XIX secolo), a cura di Carolina Orsini, Sara Rizzo, Luca Tosi, a ingresso libero al Mudec di Milano fino al 18 settembre. Ultimo capitolo del bellissimo recente riallestimento della collezione permanente del museo, la mostra e i saggi in catalogo (Silvana, pp. 134, euro 25,00) indagano le modalità con cui si è raffigurato lo straniero nell’arte del Nord Italia, svelando canoni e stereotipi. L’assunto è semplice: donne e uomini originari del continente africano sono sempre vissuti nelle regioni italiane. Spessissimo queste persone sono state spinte ai margini della società per questioni religiose, razziali, economiche. Le loro posizioni subalterne sono evidenti anche dalle opere del passato che le rappresentano: sono servi o schiavi posseduti da famiglie altolocate, paggi, scudieri mostrati un po’ di sguincio, come ombre sullo sfondo. Sono articoli di lusso, esotici come i «mori e morette» («più negra che possibile») ricercati da Isabella d’Este per la propria corte mantovana; e proprio come oggetti, quando non si riuscivano a reperire originali, ci si poteva accontentare delle imitazioni tingendo il viso di qualche staffiere.

In realtà, per ragioni storiche, geografiche ed economiche, in città come Milano lo schiavismo è stato un fenomeno sporadico: gli schiavi erano catturati o comprati perlopiù nel corso di guerre, e destinati al remo delle galee, quindi ben più presenti in città portuali come Genova, Venezia, Palermo. In Lombardia il servitore è invece impiegato come domestico, e l’inserimento di valletti africani nei ritratti – almeno dalla Laura Dianti di Tiziano, 1522-’23, in qua – finisce per diventare un canone, un’invenzione compositiva che però non sempre si aggancia a esistenze reali.

L’alterità delle minoranze non genera solo pregiudizi e paure, ma anche miti che finiscono nel corpo vivo del rito religioso, e quindi assumono un’identità iconografica. Sono spesso neri ed ebrei gli aguzzini nelle scene della Passione di Cristo, o i re magi Gaspare e Baldassarre, ma dice molto su questi temi anche il cosiddetto miracolo della gamba nera, una leggenda diffusa nell’Europa occidentale durante la prima età moderna. Il complesso immaginario che ne emerge ci parla di schiavitù, ma anche dell’appropriazione del corpo (nero) autorizzata da Dio, a garanzia dell’ordine sociale.

Di nuovo: il corpo nero è un trofeo esotico, uno status symbol. Con l’aumentare della presenza di persone di origine africana si assiste però anche a un ampliamento del concetto di bellezza. Ne sono testimonianza il cammeo con il busto di donna etiope degli Uffizi, capolavoro di Annibale Fontana, medaglista e scultore della Milano manierista, e il ricorso a figure di mori nella scultura barocca, soprattutto veneziana. Ancora subalterni, ancora schiavi o nemici infedeli sottomessi al mondo cristiano: sono telamoni, reggiceri, fermaporte, portavaso, o nudi eroici incatenati. Ma i loro corpi d’ebano bellissimi, palpitanti, sono anche concretizzazioni di fantasie di possesso; e non è un segreto che esistessero anche legami sessuali, talvolta affettivi, tra padroni e domestici, celati dalle mura di casa.

Pochissime di queste ombre hanno un nome e una storia, come il «turchetto» Mosé, di cui Pirro I Visconti Borromeo festeggiò il battesimo nella villa di Lainate nel 1603, o l’albino Benedetto Silva, il «moro bianco dell’Angola» alla corte di Cosimo III di Toscana nel 1709 o, ancora, lo schiavo liberato Sismael de Meemedid, o il principe del Marocco Muley-Xeque, morto a Vigevano nel 1612, per cui si è attenti alle sfumature: «bruno ma non nero». Della maggior parte dei servitori di origine straniera però non conosciamo nulla, nascosti dal loro nome da convertiti (gli schiavi domestici erano sempre battezzati) e da vite silenziose. Resta senza un’identità anagrafica, per esempio, il servo etiope che il conte cremonese Giuseppe Manara fa ritrarre al Piccio nel 1842. Morto giovane, scatena la «lagrima pietosa» del suo padrone, lasciando intendere un legame d’affetto difficile da ricostruire attraverso i documenti.

Tra gli schiavi o i figli di schiavi ci sono anche degli eroi patri che pochi ricordano, e le cui storie sono pronte da sbattere in faccia a chi dà valore solo a titoli di cittadinanza acquisiti passivamente, iure sanguinis. Andrea Aguyard, figlio di schiavi di Montevideo, si unì alle legioni garibaldine in Uruguay. Seguì il generale in Italia: a Milano nel 1848, a Roma l’anno successivo, dove perdette la vita a seguito di una ferita di granata. Aguyard finisce così tra gli eroi risorgimentali, ma non è l’unico soprannominato il Moro tra le fila degli eserciti di Garibaldi: tra i Mille c’è Emanuele Berio (anche lui detto il Moro), nato in Angola nel 1840; tra i volontari del 1866 c’è il nubiano Enrico Bramadio (di cui al Mudec è esposto un ritratto fotografico), eccetera.

L’attualità del tema è indubbia e la mostra, giustamente, chiude sul presente in un gioco di specchi che fa traballare qualche certezza. Theophilus Imani, ricercatore visivo italiano di origine ghanese, ha montato dei dittici accostando opere d’arte antica e contemporanea. Ogni dittico è una «rima visuale, una corrispondenza dove un’immagine dice dell’altra e da questa, a sua volta, si lascia dire». Dove prosegue, fino a noi, il percorso del corpo nero nella storia figurativa di questo Paese.