Una grande tela su tonalità bicrome dal bianco al blu illustra un’Annunciazione: secondo un classico modello iconografico una diagonale divide la composizione.

L’arcangelo Gabriele in alto a destra, la Vergine in basso sulla sinistra, ma se si guarda bene Maria non è una donna che prega ma è un uomo dinanzi a un cavalletto con in mano tavolozza e pennello.

Il pittore è Marc Chagall, l’arcangelo sua moglie Bella che è la musa ispiratrice. Questo dipinto dal soggetto sacro, ma pur così irriverente nella trasposizione dei ruoli, il pittore russo lo dipinse tra il 1917 e il ‘18 un anno decisivo per lui e per il suo paese: dalla composizione ben si vede che Chagall ha già vissuto a Parigi perché la tela è ben partecipe del cubismo anomalo di Delaunay e Léger.

Pochi l’avevano vista l’Annunciazione perché sepolta in una collezione privata di Pietroburgo, ora è in mostra al Mudec di Milano fino al 31 luglio con opere provenienti dall’Israel museum parte di un’ampia rassegna dedicata al maestro, una rassegna che ci riserva molte sorprese.

Sia per la stagione più celebre e celebrata che va dagli esordi al 1922, sia per la sua lunga attività trascorsa tra Parigi e la Costa Azzurra. Confesso di aver sempre nutrito un pregiudizio sfavorevole verso questo pittore fuori da ogni schema, scaltrissimo nel sapere attingere alla modernità senza tuttavia rinunciare alla sua vocazione di cantastorie da piazza: spesso ho pensato che Chagall era troppo scaltro perché la sua ingenuità popolaresca potesse sedurmi fino in fondo.

UN AUTORE ERRANTE

La ricchezza di questa mostra e la qualità dei pezzi che esibisce (ben 75 i dipinti) mi dicono che ero ingiustamente prevenuto. Chagall rimane un pittore fuori squadra, un non allineato, un ebreo errante tra cubismo, astrattismo e surrealismo ma con una sua identità forte e leggera allo stesso tempo: le sue radici russe e yiddish sono ovunque, negli esordi, nella giovinezza e giungono intatte fino agli ultimi anni di un’operosa ma non stanca vecchiaia.

L’identità ebraica è sempre intensamente e ossessivamente presente, vissuta e rivissuta: Chagall compone le sue tele come icone dove accanto al soggetto principale si aprono scene complementari o fumetti che sono corollario, commento o integrazione.

Instancabile narratore il pittore attinge al favoloso mondo gotico-yiddish come si vede nelle sue prime incerte e pur felicissime tele prima della sua partenza nel 1911 per Parigi dove risiede fino al 1914.

Quantunque preso da questo crogiuolo del nuovo, quantunque tentato dalla scomposizione cubista – come è ben evidente nel Golgota, ma soprattutto in Adamo ed Eva – nell’Autoritratto ritorna al suo mondo immaginario con due scene in alto (la torre Eiffel e la chiesa del suo paese), con la vacca, dipinta nella tela disposta sul cavalletto.

Animali domestici, da cortile e da paese fanno parte delle sue povere origini contadine e volano incessantemente, piroettano tra campi e cieli, sono come ideogrammi che volteggiano lievi o si poggiano su prati in posizioni sempre molto singolari.

Nato e cresciuto nella Bielorussia a Vitebsk, città ricca di una colonia ebrea molto antica, qui con l’avvento dei bolscevichi fondò e diresse l’Accademia delle belle arti: dunque per lui e non solo per lui la rivoluzione d’ottobre doveva essere l’alba di una nuova èra.

Le persecuzioni zariste contro gli ebrei erano alle spalle, un nuovo ordine sociale e politico e una nuova arte la prospettiva che si schiudeva.

Dipinge paesaggi pieni di letizia la Casa grigia e la Casa blu, ma pure tanti autoritratti con Bella che vola – a lui abbracciata – sui cieli della sua città. L’amor fou per Bella gli ispira opere intense per gioia di vivere ben espressa dalla vivacità cromatica e una velata melanconia di fondo.

IL LEGAME CON LA CULTURA EBRAICA

La comunità  ebrea è sempre al centro dei suoi interessi: vecchi barbuti dalle mani nodose e artritiche, figure dai tratti fisiognomici molto pesanti; bocche, fronti, nasi marcati, corpi minuti e non affatto armonici, con palandrane e cappelli  e abiti dalle fogge le più diverse.

I modelli dell’arte greca sono mille miglia lontani da questa umanità alle cui favole attinge, con la stessa voracità con la quale legge il Vecchio e il Nuovo Testamento. .

Ed è questa sua ebreità, questa insopprimibile vocazione a narrare a porlo in rotta di collisione con l’astrattismo e il suprematismo di Kasimir Malevitch che lui stesso aveva chiamato a insegnare nell’Accademia di Vitebsk assieme all’ebreo El Lissitzky.

Lo scontro con questi amici non è solo un scontro di potere, ma ha una radice più profonda: Chagall pensa che l’arte astratta appartiene a un mondo senza Dio e per lui questo è inaccettabile. Le grandi composizioni lineari per il Teatro ebreo di Mosca del 1920 stanno a testimoniarlo, anche se proprio queste ci fanno capire come lui assorba sia il cubismo sia il gesto estremo del suprematismo.

Per questa ragione Chagall è tutto nella modernità anche se il crinale su cui si muove è sempre aperto sull’abisso della finta-ingenuità.

LA FRANCIA E LA VECCHIAIA

Non v’è dubbio che il suo definitivo trasferimento a Parigi segna una svolta nella sua pittura: fermo restando il filo tenace che lo lega alla madre patria, in Francia scopre nuovi paesaggi, nuovo colore, una nuova maniera di narrare.

Magari più lieve e non così drammatica come è della possente forza che è nella Bibbia: scopre e illustra le favole di La Fontaine. Anche in Francia, di cui assume la cittadinanza e da cui si sente amato, dopo gli anni di una creatività eccitata seguono quelli angosciosi e inquieti a cavallo della guerra con tutte le tragedie di cui si sente parte: i ghetti e l’Olocausto sono orrori che ritornano ossessivamente ancora negli anni della vecchiaia.

Ma è questo pensiero che si risolve nella lettura e nell’illustrazione della Bibbia: Meyer Shapiro scrisse pagine molte intense e intelligenti, spiegando le ragioni per le quali il vecchio Chagall scelse taluni episodi del Vecchio Testamento e non altri, fornendoci le chiavi di lettura non facilmente decifrabili per chi non ha alle spalle questa cultura iconografica.

Sono tornato con vera partecipazione a quelle pagine dimenticate che ci svelano le pulsioni di un artista mai accomodante con se stesso: anche quando il successo, le commesse della Repubblica, il museo per lui creato ancora in vita a Nizza, l’amicizia di Malraux l’avevano reso immortale agli occhi dei francesi.