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8 Marzo 2024
di Luciano Fontana
Il tema della parità tra uomini e donne ha molte facce, molti ostacoli e tanti orizzonti ancora lontani. Ma c’è un ostacolo più alto, quello che in qualche modo impedisce la piena realizzazione di tutti gli altri diritti: le poche donne che in Italia lavorano e la disuguaglianza in termini di opportunità, retribuzioni e carriere. Vorrei parlarne partendo da mia madre Laura. Erano i lontani anni ’60, poche donne a quel tempo non stavano in casa: lei aveva sempre rifiutato di fare solo la casalinga. Lavorare la faceva sentire indipendente e utile, nonostante i grandi sacrifici .
Velo racconto per dirvi quanta energia, determinazione e desiderio di indipendenza economica fossero necessari alle nostre mamme per affermare il primo e fondamentale diritto: quello di lavorare. E quanti ce ne vogliano, nonostante i grandi progressi, ancora oggi. Rita Querzè, nel suo libro «Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse», ha usato una frase perfetta: «Ci fanno correre la maratona con i tacchi a spillo». La prima domanda è ovvia, scontata: quanto siamo cambiati? Se guardiamo ai dati della partecipazione delle ragazze a scuola e università, se ci fermiamo ai tanti casi di successo nella ricerca scientifica, nelle professioni e nella conduzione delle aziende, se anche la politica ci mostra un volto nuovo (prima presidente del Consiglio donna, una segretaria alla guida del principale partito d’opposizione, prima governatrice in Sardegna) non possiamo che rispondere: sì, le cose stanno cambiando. Poi però iniziano i dubbi. Ci stiamo fermando alla superficie, ci colpiscono solo i casi eclatanti e le avanguardie? Cosa succede a commesse, operaie, collaboratrici domestiche, impiegate, addette ai call center? Vale la pena di dare uno sguardo ai dati. Vanno letti con attenzione perché dimostrano che non siamo riusciti a superare un mondo antico.
Le donne lavorano molto meno degli uomini: 52,2% contro 70,9. Il divario uomini-donne nel tasso di occupazione è di 18,7 punti a livello nazionale. Siamo il Paese con il più basso tasso di occupazione femminile in Europa. Questo accade nonostante la frase che ci sentiamo ripetere continuamente: se il tasso di occupazione delle donne fosse simile a quello degli uomini il nostro Pil aumenterebbe di 12/14 punti. Naturalmente avere un Pil più alto ci piace, dimostra lo stato di salute di un Paese (e sappiamo tutti quanto ne avremmo bisogno anche in relazione al peso del debito pubblico). È un buon obiettivo ma c’è un punto più importante: se tantissime italiane, quasi la metà, sono escluse dal mondo del lavoro, alla loro vita manca un elemento fondamentale di realizzazione, indipendenza e uguaglianza.
Le donne con un contratto part time in Italia sono il 31,6% contro il 9,1% degli uomini. In mezzo c’è una distanza di 22 punti percentuali. Anche nell’Europa a 27 le donne lavorano part time più spesso degli uomini, ma il divario si ferma a 15 punti percentuali. Se si considera solo il lavoro dipendente, il gap sale in Italia a 24 punti.
Le donne manager sono diventate il 21,6% del totale nel 2022. Se si guarda soltanto all’industria le cose vanno ancora peggio: la percentuale scende al 15,9%. C’è un solo fronte in cui le cose vanno diversamente: quello dei consigli d’amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate, dove gli ultimi dati parlano del 40% di partecipazione femminile. È il risultato della legge Golfo-Mosca che imponeva un obbligo a queste società nelle nomine. Bisogna ricordare però che le società quotate sono poco più di 200, mentre le imprese in Italia sono oltre 4 milioni.
La differenza media di retribuzione tra uomini e donne per ogni ora lavorata in Europa è del 12,7%. Le italiane guadagnano il 15,5% in meno l’ora nel privato e il 5,5% in meno nel pubblico. È chiaro il meccanismo: nel pubblico i progressi di carriera sono minimi, conta spesso di più l’anzianità. Nel privato, invece, c’è più spazio per la discrezionalità. E lì possono annidarsi i pregiudizi. Le donne guadagnano di meno anche perché lavorano nei settori con le retribuzioni più basse e perché fanno carriera con più difficoltà. Si potrebbe pensare: almeno alla prima assunzione dopo la laurea, donne e uomini guadagneranno allo stesso modo. Sbagliato. Le donne guadagnano meno fin da subito. Tra i laureati il 16,9% in meno dopo i primi 5 anni di lavoro. E non ci sono eccezioni anche tra le poche e motivate ingegnere. L’effetto di tutto questo naturalmente dalla busta paga rimbalza sulla pensione.
A fine 2022 le imprese femminili registrate erano 1,3 milioni, il 22,2% del totale. Le imprenditrici sono poche e soprattutto non crescono: nel 2013 erano il 23,6%. Le attività promosse dalle donne molto spesso sono più piccole, nei settori a più bassa redditività e con meno dipendenti. Su 214 società quotate solo 5 fanno capo a un’imprenditrice. Questi sono i dati principali che fotografano la situazione e su cui il Tempo delle Donne ha scavato, ragionato e avanzato proposte in questi anni, già dal 2014. Le cause della disuguaglianza sono tante: culturali, politiche, legate ai percorsi formativi e al basso tasso d’innovazione.
C’è una di queste cause su cui vorrei concentrare l’attenzione, perché si tratta di una specie di peccato originale. La montagna di lavoro domestico e di cura gratuito che svolgono le donne. Le italiane si caricano il 70% del lavoro domestico. Stanno peggio solo le greche, che arrivano al 73%. Le tedesche sono al 62%, le francesi al 63% e le inglesi al 64%. Come si vede, il problema esiste dappertutto, ma nei Paesi del Nord Europa come la Svezia la parità è vicina: il lavoro domestico svolto dalle donne si ferma al 56%.
Vediamo un attimo i diversi carichi di lavoro nelle coppie in cui tutti e due, moglie e marito, compagno e compagna, sono occupati. In Italia, una donna con figli, lavoratrice a tempo pieno, dedica circa 60 ore alla settimana alla somma di lavoro retribuito, lavoro domestico e cura dei figli, contro le 47 ore del partner. Per essere ancora più chiari: 88 minuti in più al giorno del partner per il lavoro domestico.
Perché è così difficile sciogliere questo nodo? Pesa ovviamente la resistenza culturale a cambiare i ruoli, ma conta anche l’assenza di politiche pubbliche che puntano a ridurre il carico sulle donne.
Aumentano le donne di successo nella ricerca scientifica o in politica Ma restiamo il Paese in Europa con il più basso tasso di occupazione femminile
E senza due stipendi difficilmente la famiglia può permettersi di avere il secondo figlio
Tutto precipita naturalmente nel momento in cui una coppia decide di avere un bambino.
Pensateci un attimo, qualcuno ha mai chiesto a un uomo: vuoi lavorare oppure no? Semplicemente la questione non esiste. Sì, magari qualche maschio resta a casa per i lavori di cura, ma diventa subito un fatto da raccontare sui giornali. Cosa accade invece alle giovani donne lavoratrici? Per le ragazze (è ancora il paragone calzante di Rita Querzè) è come avere un timer stampato sulla fronte.
Sanno che le aziende considerano le donne come un lavoratore che fa o farà il doppio lavoro, quindi, anche inconsapevolmente, investiranno meno su di loro. Il problema non sarà tanto il periodo di assenza per maternità ma piuttosto il lavoro familiare e di cura per i successivi 15-16 anni (scuola, salute, compiti, casa etc…). Allora riassumiamo: nel giro di pochi anni dall’entrata al lavoro le donne si trovano con retribuzioni in media più basse e lavori più precari. E quando arriva il primo figlio la scelta più conveniente può diventare che sia la donna a sacrificarsi. Fino al punto di dimettersi, in particolare quando lo stipendio è basso e copre a malapena le spese per nido e baby sitter.
Si parla tanto di battaglia contro la denatalità. Ma la chiave perché una coppia decida di avere un secondo figlio è che in famiglia si lavori in due. Tutto sembra spingere invece a riportare le donne a casa già dal primo figlio. Il dilemma delle politiche pubbliche è sempre stato questo: meglio avere le donne a curare gratis figli e anziani (magari aiutandole con sgravi fiscali e bonus), oppure investire in una rete di servizi a basso costo e di buona qualità? In questi anni la prima opzione ha avuto il sopravvento. Le pressioni affinché si tentasse una strada diversa sono state deboli. Cambiare modello richiederebbe importanti investimenti.
E allora che cosa serve per cambiare? Proviamo a riassumere le proposte che ci sembrano più efficaci tra le tante avanzate
1) Una campagna straordinaria, innanzitutto culturale, per la condivisione dei lavori di cura. Il tema non può essere affrontato e risolto nel chiuso della coppia, deve diventare questione nazionale.
2) Politiche pubbliche che abbiano un unico obiettivo: due stipendi in famiglia. Per raggiungerlo servono asili nido gratis e sgravi contributivi su colf, baby sitter e badanti.
3) Misure organizzative e scelte aziendali che favoriscano un bilanciamento dei tempi di vita e lavoro: obiettivi e risultati debbono diventare la stella polare.
4) Incentivi alle aziende che si certificano e adottano modelli di produzione che favoriscono l’equità.
E infine, soprattutto noi uomini dobbiamo essere convinti che cambiare è necessario. La parità dei diritti, dei doveri e delle opportunità è giusta e anche conveniente. Serve a tutti: alle donne che hanno bisogno di autonomia economica, alle famiglie che hanno bisogno di un doppio reddito, al Paese che ha bisogno di più figli e di un Pil più alto. La lentezza dei progressi ci deve allarmare. È tempo di fornire buone scarpe da ginnastica alle donne che stanno correndo questa maratona.