Il governo punta a raccogliere circa 5 miliardi cedendo anche quote dell’ex monopolista delle lettere e di Mps. L’operazione sarà avviata tra uno-due mesi per rispettare gli impegni con l’Europa
Eni, Poste, forse ancora Mps dopo la tranche già venduta a novembre. Tutte quote di minoranza, che non minano il controllo pubblico su aziende ritenute strategiche, né impattano sulla possibilità di definirne le strategie. Le due questioni si intersecano, per un governo che rivendica la sua natura politica ed è politico nella scelta di provare a dare un segnale di responsabilità sui conti all’Europa e ai mercati, ma anche di imprimere il marchio della destra sulla direzione di marcia. Il perimetro, però, è scivoloso, a causa di un Pil che quest’anno potrebbe crescere meno del previsto, collocandosi sotto la soglia psicologica dell’1%. Una mannaia per l’equilibrio con il debito e per gli impegni presi con Bruxelles. Per questo i gioielli di famiglia tornano utili. Senza ansia e fretta da svendita, ma con la consapevolezza che gli appetiti del mercato vanno saziati appena prendono forma. In ballo non ci sono briciole: in un conto a spanne, le vendite potrebbero fruttare fino a 5 miliardi solo nel 2024, come prima fetta di rilievo del piano di privatizzazioni che si estende al 2026.
Il buon andamento dei mercati, oltre alle performance di redditività consolidate nel 2023 dalla gran parte delle grandi aziende a partecipazione pubblica, offre una qualche agibilità. Secondo quel che trapela dietro le quinte, ci sono tempi tecnici di uno-due mesi, prima di avviare un tris di operazioni che tuttavia sono già ben inquadrate nelle riunioni tra Palazzo Chigi, via XX Settembre e fidati consulenti legal-finanziari. Vediamo.
Poste Italiane . La vendita di una tranche robusta è l’operazione più lineare e scontata a disposizione. Sia perché l’azienda che fu delle lettere ha ancora buone prospettive di crescita – e appetibilità – per gli investitori, sia perché è stata l’ultima grande quotata tra le ex partecipate: tra Cdp (35%) e Tesoro (29,3%) la quota pubblica è ancora del 64,3%. Diverse fonti indicano una forchetta tra il 10 e il 20% di azioni in possibile vendita. L’operazione potrebbe assumere la forma di un collocamento accelerato, simile a quello visto due mesi fa sul 25% di Mps. Ai prezzi attuali l’incasso del Tesoro sarebbe compreso tra 1,32 e 2,64 miliardi. Tuttavia, per ragioni di marketing finanziario, appare difficile che la prossima cessione di azioni si manifesti prima del 20 marzo, quando insieme ai risultati del 2023 l’ad Matteo Del Fante svelerà il nuovo piano industriale pluriennale, che sancirà la trasformazione di Poste da azienda dei recapiti a operatore di logistica a 360°. Prima di allora si dovrebbe firmare anche il nuovo contratto dei 120 mila dipendenti di Poste: così il management avrà ogni leva per stimare la redditività prospettica e le cedole degli azionisti. A quel puntosarà più facile, e conveniente, attrarre i nuovi investitori.
Eni .Il colosso energetico vale 50 miliardi in Borsa, e il Tesoro (con Cdp) ha il 32,7%. La quota tra qualche settimana salirà al 34% circa, per effetto del riacquisto di azioni che l’azienda ha in corso. Terminato il riacquisto e calcolati i nuovi pesi, si stima di cedere in Borsa un 4% del colosso, incassando 2 miliardi circa per rimanere al 30% di controllo “pubblico”.
Mps . Il collocamento di novembre, quando il Tesoro incassò 920milioni, non ha chiuso i giochi. L’impegno con l’Ue è di riprivatizzare il Monte nel 2024, e al Tesoro resta un 39%. Anche se non è tramontata l’idea di un “terzo polo” con una banca italiana, la tentazione di vendere ancora azioni è forte.
Potrebbe concretizzarsi dal 21 febbraio, trascorsi i 90 giorni di impegno del Mef a non cedere altre azioni. Per quella data la banca avrà reso noti i conti, attesi brillanti, così da invogliare nuovi investitori a Siena.