ROMA — Se lo aspettavano un po’ tutti. Era inevitabile che la batosta elettorale unita alle tante, troppe incertezze del lungo percorso congressuale avrebbe punito il Pd, innescando una fisiologica discesa nei sondaggi come pure accadde al M5S nella fase di transizione verso la leadership di Giuseppe Conte. Solo che nessuno immaginava una caduta così verticale.
Oltre quattro lunghezze perse in meno di tre mesi, certifica l’ultima rilevazione di Swg per il Tg La7: i Democratici crollati dal 19% delle Politiche al 14,7, con i grillini da settimane in corsia di sorpasso e ormai fissi in testa al 17,4, secondo partito dopo l’imprendibile Fratelli d’Italia, ben due punti sopra il risultato del 25 settembre. «Andando di questo passo facciamo la fine della Lega, precipitiamo sotto al 10 e non ci riprendiamo più», mugugna la truppa dem in Transatlantico, da giorni sulle barricate per provare a correggere «l’iniqua manovra» del governo Meloni. «Colpa anche di Letta, che negli ultimi tempi ha sbagliato tutto quel che si poteva», rincarano i malpancisti, ormai annidati in tutte le aree del partito. «Anziché accelerare, per cercare un’impossibile mediazione tra i capicorrente ha tirato il freno a mano e i remi in barca. Ed ecco qua: noi siamo spariti e abbiamo lasciato campo libero a Conte, che ormai detta i temi e l’agenda progressista».
A dare il colpo di grazia, il Qatargate. Per nulla attutito dalla veemente reazione del Nazareno, cheha subito sospeso Andrea Cozzolino, l’eurodeputato finito nelle indagini della procura belga; proposto una commissione d’inchiesta per fare piena luce; addirittura minacciato di costituirsi parte civile al processo e chiedere il risarcimento dei danni agli eletti dem che dovessero risultare coinvolti. A misurare l’impatto devastante è sempre Swg: peril 58% degli italiani la corruzione fin qui emersa di politici e sindacalisti impegnati nelle istituzioni europee è solo «la punta dell’iceberg» di un sistema considerato marcio fino al midollo. Quota che schizza al 73% fra gli elettori del M5S, mentre fra quelli del Pd si scende al 33. Sintomo di una diversa valutazione dello scandalo che ha gettato nello sconforto la comunità dem. Destinato a lasciare il segno e, forse, persino a deviare il corso del congresso.
Lo dice chiaro Matteo Orfini, dando voce a un’ipotesi che comincia a circolare con insistenza: «Io continuo a pensarla come quando votai contro questo percorso tortuoso: impiegare quattro mesi per eleggere un segretario è insensato in un momento così difficile per la vita del Paese. Con la recessione alle porte e una manovra che allarga le diseguaglianze, il principale partito d’opposizione si attarda in una transizione che saggezza avrebbe suggerito di far durare il meno possibile. Perciò ora, anche alla luce degli eventi, proverei a tagliare un po’ i tempi: se i tre candidati fossero d’accordo, basterebbe convocare la Direzione e approvare una modifica al regolamento per comprimere le varie fasi congressuali».
Proposta che sta mietendo consensi. Favorevolissimo è Stefano Bonaccini, che peraltro lo aveva già chiesto. Più tiepido il fronte pro-Schlein, convinto che lo sfidante voglia affrettarsi per impedire alla candidatura della pasionaria emiliana di crescere più di quanto non stia già facendo. E pure Paola De Micheli ha dei dubbi: «Siamo già a Natale, mi sembra irrealistico sotto il profilo organizzativo». Il fatto è che, stando così le cose, le primarie del 19 febbraio appaiono lontanissime. E prima ci sono anche le regionali in Lombardia e Lazio, che non promettono benissimo. Sempre che il Pd ci arrivi vivo.