Dopo più di vent’anni dall’ultima retrospettiva su Fosco Marini fotografo (Il Miramondo. Fosco Maraini. Sessanta anni di fotografia, 2000), mostra da lui stessa curata con Cosimo Chiarelli, al Museo Marino Marini di Firenze, le fotografie del nostro antropologo «umanista» tornano a essere ammirate al Museo delle Culture di Lugano con l’esposizione L’immagine dell’empresente / Fosco Maraini/ Una retrospettiva (fino al 19 gennaio 2025).
Le immagini qui esposte sono di più e anche se non vintage, stampate in modo eccellente (Studio Berné, Legnano), e ordinate cronologicamente invece che a tema. Circa duecentoventi scatti raccontano così i suoi viaggi, le sue scalate di alpinista, ma soprattutto le sue missioni etnografiche, in un percorso espositivo che va dal primo reportage sulla nave-scuola «Amerigo Vespucci» (1934), all’ultimo a colori all’interno degli stabilimenti siderurgici della Falck di Sesto San Giovanni (1956).
A differenza della mostra fiorentina, quella ticinese, curata da Francesco Paolo Campione, direttore del Musec, non espone solo le fotografie conservate dal Gabinetto Vieusseux di Firenze, ma anche quelle di altri archivi: Istituto centrale per il catalogo e la documentazione di Roma, Museo nazionale della montagna di Torino, Fondazione Primo Conti, a riprova dell’ampia ricognizione eseguita sulla sua vasta produzione fotografica oggi suddivisa in più sedi, ma per questa occasione insieme per commemorare l’anniversario della sua scomparsa avvenuta nel 2004.

PRIMA della retrospettiva ticinese, tuttavia, diverse sono state le opportunità d’incontro con la fotografia di Maraini. Ciò a conferma che la sua fortuna critica di fotografo non è mai venuta meno, grazie soprattutto all’impegno delle sue figlie Dacia e Toni, e della sua seconda moglie Mieko Namiki (sposata dopo il divorzio nel 1970 da Topazia Alliata), dedite a far conoscere le qualità poetiche ed espressive della fotografia di Fosco, «forma d’arte» da lui scelta perché in grado di «interpretare l’animo del nostro tempo», e di comunicare insieme alla scrittura la sua visione del mondo.

INTELLETTUALE dai vasti interessi culturali e un insopprimibile desiderio di conoscenza espressa in innumerevoli viaggi per «potere gettare ponti che scavalchino millenni», la personalità di Maraini di antropologo «irregolare», aderente a quella «antropologia senza antropologi» della quale torna a scrivere Francesco Faeta in catalogo (Skira), non è stata mai disgiunta da quella di appassionato «cacciatore di immagini». Di quali immagini sia riuscito poi a catturare si scopre con ammirazione nel percorso espositivo.

DOPO GLI ESORDI, dove saggia il potenziale dei campi focali (macrofotografia naturalistica), gli effetti della luce e dell’inquadratura (La sorella Karamazov; Pericolo di morte!, 1928), informato, inoltre, sia delle sperimentazioni futuriste (Guglielmo Sansoni – «Tato», lo cita tra i fotografi del movimento) sia della fotografia della Nuova Oggettività tedesca, Maraini ha il suo primo contatto con l’Asia, accompagnando da reporter l’orientalista Giuseppe Tucci in una delle sue missioni.
L’incontro nel 1937 con il «titanico e satanico» mondo himalayano e i popoli del Tibet, inaugurano quella «fotografia d’uomini e culture» che sarà da allora il soggetto marainiano, ma in termini del tutto nuovi dalla «fotografia dell’esotismo» fino allora praticata. Maraini, infatti, si fa «interprete» culturale documentando «una cultura estranea – scrive Campione – non più per il suo pubblico (il caso dell’esotismo), ma per un pubblico appartenente alla cultura raffigurata o per un pubblico appartenente a una cultura terza».
Sono però i suoi numerosi ritratti del Giappone, quelli dove Maraini seppe fornire prova di un originale connubio tra ricerca antropologica ed eloquenza fotografica. Nel paese del Sol Levante si trasferisce dal 1938 con la famiglia, invitato come studioso dalle università locali, prima a Sapporo e nel 1942 al 1943 a Kyoto, finché non sarà internato fino alla liberazione nel campo di concentramento di Nogaya per non avere aderito alla Repubblica di Salò. In Giappone ritornò nel dopoguerra, ancora per lunghi soggiorni: due volte negli anni Cinquanta e poi nel 1971.

A PIÙ RIPRESE raccontò l’antico popolo animista di origine tibetana Ainu, devoti agli animali feroci come l’orso, sacrificato nel rito dello iyomante. Nel 1954 è poi la volta della comunità Ama, insediata nell’isola di Hèkura, dedita alla pesca di un mollusco (awabi) praticata solo da donne. Maraini le ritrae inseguendole anche sott’acqua, con la sua fotocamera protetta con uno scafandro artigianale, mentre agili s’immergono legate a una corda e coperte solo da un tanga.
Lo sguardo fotografico e insaziabile di curiosità e scoperte lo vede tenace alpinista. Le montagne, dagli Appennini alle vette elevate del Tibet, rivestono un posto centrale nella vita di Maraini che inventa per sé il soprannome di Citluvit (Cittadino Luna Visita Istruzione Terra).
Nel 1959, scalato l’anno prima con Walter Bonatti e Carlo Mauri il Gasherbrum IV, nel Karakorum, raggiunge la cima dell’«inviolato» Picco Saraghra nella catena dell’Hindu Kush. Approfitta di trovarsi non lontano dal fiume Kunar per avvicinare la comunità Kalash: gli «ultimi pagani», perché non islamizzati. Le fotografie spontanei di donne, bambini e sciamani si aggiungono alla puntuale ripresa dei loro ambienti arcaici e ai momenti essenziali dei riti propiziatori. L’Asia si mostrerà generosa di una moltitudine di simili incontri che Maraini avrebbe voluto raccogliere in un libro (Lettere dall’Asia), purtroppo mai realizzato.

OLTRE L’ORIENTE, però, la mostra descrive le altre occasioni nelle quali egli afferrare ciò che chiamerà l’«empresente», in altre parole «l’attimo fuggiasco in cui si materializza l’esperienza» che sotto forma di immagine costringe il fotografo a «far scattare l’otturatore con prontezza quasi diabolica».
Accade nel Meridione d’Italia, dove Maraini compie in diversi viaggi, dall’immediato dopoguerra ai primi anni Cinquanta, un’attenta ricognizione insieme all’editore barese Diego De Donato. Da furastiero fissa sulla pellicola paesaggi rurali (Verso Craco, 1950; Siculiana, 1952)) e piccoli centri urbani che la modernizzazione presto vuoterà o trasformerà radicalmente (Inverno a Enna, circa 1950).
Le sue immagini di uomini assorti in umili mestieri, di donne con indosso i costumi della festa e dei tanti bambini colti nei giochi di strada o in aule scolastiche, sono saggi di realismo etnografico che compendiano le inchieste di de Martino, di Dolci o Scotellaro. Sul piano fotografico, invece, le sue fotografie stanno accanto a quelle di Petrelli, Cancian o Seymour, ma in particolare di Zavattini, al quale Maraini è legato da un’«analoga vicinanza umana e cifra stilistica» (Faeta): sono entrambi capaci di evocare condizioni umane senza «iconizzare quanto osservano».
Tra gli infiniti stati dell’umano che la mostra documentata, quello dell’«universo nimbologico» può apparire eccentrico rispetto al suo percorso di antropologo. La sua passione per le nuvole attraeva anche Ansel Adams, che Maraini ammirava, ma a differenza del fotografo statunitense lui si divertì a suo modo a riclassificarle e a ritrarle sempre sopra un orizzonte. Anche nelle nuvole scorgeva la «Rivelazione perenne», somma di tutte quelle annunciate dalle diverse religioni e che si può scoprire «nella natura e nella vita umana intorno a noi – come scrisse nella lettera consegnata agli amici nel giorno della sua cerimonia funebre – basta sentirla, vederla, leggerla».

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