La presidenza dei Conservatori da lasciare, gli alleati europei riottosi da ammansire, la Commissione europea che deve prendersi la briga e il palcoscenico per ricordare che gli attacchi allo stato di diritto non vanno bene, le organizzazioni europee per la libertà di stampa che sollecitano una procedura di infrazione: chissà se Giorgia Meloni si descriverebbe ancora come «la pietra che rimane pietra». Al momento, vista dall’Europa, appare più come «un vaso di terracotta che viaggia tra vasi di ferro».

La strategia meloniana era una volta quella di fare da ponte tra il centrodestra e la destra estrema: «Alla nostra sinistra c’è il Ppe, alla nostra destra i Patrioti», per usare la sintesi del capogruppo conservatore Nicola Procaccini. Ma adesso a destra e a sinistra, a Bruxelles come a Varsavia, gli approdi vacillano, e anche il ponte e la sua strategia, di conseguenza.

LA BACCHETTATA DA BRUXELLES

Questo mercoledì la vicepresidente della Commissione europea Věra Jourová ha detto a chiare lettere che Bruxelles è «preoccupata» riguardo al tema dell’indipendenza del servizio pubblico. In altre parole, la politicizzazione della Rai è ormai così smaccata da non poter essere ignorata. «Abbiamo due raccomandazioni per l’Italia, e una nuova riguarda proprio l’indipendenza del servizio pubblico», ha detto Jourová. Inoltre c’è il tema dell’«aumento di intimidazioni per via legale, fatte anche dai politici stessi, nonostante l’Ue abbia pure adottato una legge anti querele bavaglio, e nonostante avessimo già raccomandato di prevenire l’uso abusivo delle querele contro i giornalisti».

La madrina dello European Media Freedom Act e della legge europea anti slapp (querele bavaglio) era già stata allertata più volte dalle federazioni italiana, europea e internazionale dei giornalisti (Fnsi, Efj, Ifj), oltre che – con svariate lettere – dallo European Movement. Jourová aveva in precedenza avvertito sulla «tendenza negativa» per i media in Italia, ma aspettava la pubblicazione ufficiale del rapporto sullo stato di diritto, avvenuta appunto questo mercoledì, per mandare a Roma un segnale con le carte in mano.

Il rule of law report si basa anzitutto sul “Monitor sul pluralismo” di cui Domani aveva scritto in anteprima a fine giugno, e che accertava il degradarsi della libertà dei media in Italia. Una tendenza contraria a quella dell’Unione europea, che si è dotata dello European Media Freedom Act. Proprio perché la situazione italiana stride con l’Emfa, la Commissione ha già dovuto parlarne con Raffaele Fitto: lo ha detto questo mercoledì il commissario Ue alla Giustizia, Didier Reynders, addolcendo la notizia come il segnale della «volontà di dialogo».

Intanto la Federazione europea dei giornalisti (Efj) spinge perché Bruxelles avvii contro l’Italia di Meloni «la procedura di infrazione prevista dall’Emfa non appena sarà possibile», spiega a Domani il segretario generale di Efj, Ricardo Gutiérrez. «Il caso italiano mostra con quanta rapidità un paese possa passare dall’essere relativamente liberale a una svolta illiberale nel giro di pochi mesi: adesso bisogna agire, è il tempo delle sanzioni».

Lunedì Efj, assieme agli altri partner della Media Freedom Rapid Response, presenterà gli esiti della missione urgente svolta in Italia a metà maggio, ma si può già anticipare che i riscontri avuti a Roma hanno aumentato le preoccupazioni invece di lenirle; del resto il fatto che la maggioranza meloniana non avesse neppure voluto incontrare le organizzazioni per la libertà di stampa era già in sé un segnale negativo.

CONSERVATORI E INCARICHI

L’autoesclusione meloniana in fase di nomine, i voti contrari al summit europeo e all’Europarlamento, e soprattutto l’autoinflitta chiusura dei margini di manovra coi Popolari europei, hanno già eroso a Meloni il fianco «sinistro», per usare la bussola di Procaccini. Il punto è che pure sul lato destro la vita politica della premier in Europa è a dir poco complicata.

Dopo aver minacciato l’uscita dai Conservatori europei pur di strappare le migliori condizioni, l’entourage dell’ex premier polacco Mateusz Morawiecki ora fa arrivare voce alla stampa di Varsavia che ci sarebbe un accordo con Fratelli d’Italia perché sia lui a diventare il presidente del partito dei Conservatori; anche se vien fatto filtrare pure che non è detto che gli italiani glielo lascino fare. Non a caso i vertici nostrani sull’accordo fanno i vaghi. Seppur Morawiecki diventasse presidente, ci sarebbe un italiano a condividere di fatto la gestione: lui è il segretario generale del partito Ecr, Antonio Giordano; il deputato di FdI gestisce pure i rapporti coi repubblicani americani, ovvero col mondo trumpiano.

In tutta la faccenda un elemento appare piuttosto solido: che Meloni si prepari a cedere quella poltrona. «Giorgia lo aveva detto, “dopo le elezioni mollo”», ricorda Procaccini. Le proroghe iniziano a essere tante: l’ultima è quella che Domani aveva anticipato, a giugno 2023. All’epoca l’argomento per restare era che una leader di governo potesse far comodo a tutti, rafforzando il «brand» dei conservatori. «Vedremo a settembre, ora la priorità di Meloni sono le nomine», dice a Domani il capodelegazione di FdI in Ue, Carlo Fidanza.

Va detto che avere alleati riottosi come il Pis polacco, che minacciava di andarsene in pieno vertice europeo sulle nomine, ha effetti anche sui posti chiave. Per non parlare del fatto che pur di tenere insieme il gruppo – mentre i Patrioti ingrossavano le file del loro – i meloniani hanno dovuto garantire posti non solo ai polacchi, ma ai fiamminghi tentati di fuggire nel Ppe (l’ex ministro Johan Van Overtveldt ha preso la presidenza della commissione ai Bilanci) e all’ala moderata del gruppo (il partito di Petr Fiala ha ottenuto la commissione Agricoltura). Nel caso degli ex alleati di Vox neppure trattare è bastato.

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