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di Antonio Polito
Intendiamoci, sempre meglio Gramsci che Dante, se proprio la nuova destra vuole rinfrescare il suo Pantheon di eroi nazional-popolari. Anche perché l’autore dei «Quaderni dal carcere» c’azzecca di più; nel senso che almeno c’è una qualche attinenza storica con le radici culturali di Fratelli d’Italia (anche a non voler credere alla discendenza genealogica che sarebbe stata scoperta tra lui e Giorgia Meloni).
Non si può perciò che applaudire alla decisione del ministro Sangiuliano di apporre una targa commemorativa alla clinica Quisisana di Roma, dove una delle menti più raffinate del marxismo italiano smise di pensare dopo la lunga cattività cui era stato costretto dal regime fascista (il ministro annuncia anche una mostra, non sappiamo se organizzata direttamente da lui). È infatti sempre lodevole l’intento ecumenico di allargare lo spettro di «padri nobili» della cultura italiana.
Ma la scelta del fondatore del Pcd’I (Partito comunista d’Italia) non è poi così sorprendente. Da tempo c’è in giro un «gramscismo di destra» che ammira in lui il concetto di «egemonia», e che vorrebbe rubarglielo per dare più solide basi culturali al nuovo potere meloniano. Basti pensare che il bollettino editoriale di Fratelli d’Italia, dove si danno suggerimenti ai militanti per rassegne e convegni, si chiama per l’appunto «Controegemonia», ed è firmato da un deputato, Alessandro Amorese (l’ha raccontato Stefania Parmeggiani su Repubblica).
D’altra parte negli anni ’20 del Novecento fascisti e comunisti apparvero non a caso insieme sulla scena, nel giro di un paio d’anni, e percorsero fino a un certo punto strade alquanto parallele: nel rifiuto del vecchio regime liberale, nel fascino per la violenza come levatrice della storia, e nella brutalizzazione della lotta politica.
Di fronte all’emergere della società di massa, anche Gramsci proponeva un modello di controllo: ma invece che dall’alto, come poi fu in Russia con lo stalinismo, le purghe e i gulag, dal basso, conquistando casamatta per casamatta i luoghi dove si formavano le idee e le «sovrastrutture» dell’egemonia borghese. Se ai suoi tempi ci fosse stata la Rai, siamo sicuri che le avrebbe dedicato la stessa attenzione che oggi le presta la nuova destra per «riequilibrare», come ha detto la premier in conferenza stampa, decenni di «egemonia di sinistra».
D’altra parte gli anni del consenso al regime si fondarono sui Littoriali, sui Guf, su sport e cinema, sul corporativismo. Lo schema non era molto diverso: fino allo scoppio della guerra, Mosca e Roma si intendevano. C’è stato in Italia un personaggio che ha perfettamente unito tra di loro quei due mondi: Nicola Bombacci, idolatrato agitatore socialista in Romagna, odiatissimo dai fascisti («Con i baffi/di Bombacci/ ci farem gli spazzolini/ per lucidar le scarpe/ di Benito Mussolini»), e poi a Livorno fondatore con Gramsci del Partito Comunista. Negli anni Trenta aderì al fascismo, e fondò guarda caso una rivista che si chiamava «La Verità» (traduzione letterale della «Pravda» sovietica). Finì anche lui nell’orribile messinscena di Piazzale Loreto, insieme al Duce e a Claretta Petacci.
Per quanto apprezzabile, dunque, questo interesse per Gramsci sembra un revisionismo a basso costo, non destinato a far compiere alla cultura di destra quel salto di qualità cui giustamente anela; perché il potere politico ha bisogno delle idee, e di buone idee, per durare. Non arriveremo alla malizia di Marco Gervasoni, intellettuale a lungo editorialista de Il Giornale, il quale ha suggerito al ministro sull’Huffington Post di dedicare una targa anche a Giacomo Matteotti, di cui quest’anno ricorrono i cent’anni dalla morte per mano dei sicari di Mussolini, o ai fratelli Rosselli, raggiunti e uccisi in Francia dai killer mandati da Galeazzo Ciano. E però, dopo un rivoluzionario come Gramsci, forse sarebbe giunta l’ora di celebrare un liberale, uno qualsiasi. Per esempio — suggerisce Gaetano Quagliariello, storico che di destra se ne intende — il Benedetto Croce del Manifesto degli intellettuali antifascisti: «Per ragionare sulla società del domani che la nuova destra vuole costruire, sarebbe più utile capire se aveva ragione lui o Giovanni Gentile».