di Gregorio Botta
«Chi di noi è morto per primo?» si chiedeva in una poesia giovanile Tano Festa. La risposta gli arriverà troppo presto. Il primo è il fratello maggiore, Francesco Lo Savio, che nell’autunno del 1963 si imbottisce di barbiturici in un hotel di Marsiglia a soli 28 anni: il primo e il più sfortunato, il più triste, il più conseguente, il più solitario. Ferito e tradito dai suoi amici, non ha visto il successo che invece loro stanno già toccando. Solo dopo la sua morte la grandezza della sua arte sarà riconosciuta. Il secondo sarà lui, Tano: morto nel gennaio del 1988 a 49 anni, quasi da barbone, inselvatichito, la mente ormai confusa, nascosto sotto una falsa identità. Dieci mesi dopo se ne va su un letto dell’ospedale Spallanzani Franco Angeli, sfinito dall’Aids, contagiato probabilmente da una siringa infetta. Ha solo 53 anni. L’ultimo è il più famoso del gruppo, il pittore che ha avuto tutto e perso tutto più di una volta, che ha ecceduto in tutto ciò che ha fatto, specialmente le droghe, il re dei dissipatori: Mario Schifano muore a 63 anni, nel 1998. Ma come pittore è forse già morto da tempo, costretto negli ultimi anni a sfornare quadri a ripetizione, inseguito dai creditori della malavita.
Vite esagerate, estreme, tumultuose.
Vite nell’oro e nel blu, secondo il titolo che dà al suo libro Andrea Pomella ( Einaudi), nel quale ricostruisce le storie di questi quattro campioni dell’arte fin dove le testimonianze e i documenti lo consentono. E per il resto le immagina, secondo le regole del romanzo biografico oggi così diffuso. Del resto lo stesso autore mette in esergo una citazione di Schifano: « Mi conoscono anche quelli che non mi conoscono. Quindi inventate quello che volete».
Tra invenzione e realtà il romanzo ci porta in quella Roma irripetibile degli anni ’60 e ’70, che vive un clima creativo febbrile, feroce e scanzonato, rapace e generoso. Il cui ombelico è piazza del Popolo, e per la precisione il caffè Rosati, dove i nostri amano stazionare fino al più tardi possibile. È un mondo dove può capitare che un giovane pittore venda tutti i suoi quadri alla prima personale, e con le tasche piene di contanti compri una spider Mg bianca che non sa e non può guidare. E infatti la distrugge lo stesso giorno, schiantandosi contro un benzinaio della Shell: Schifano non ha neanche la patente. O accade che il suo amico Franco raccatti per strada un americano talmente ubriaco da giacere semisvenuto sul lastricato, e lo porti a casa, per rimetterlo in sesto. E alla fine dipinga con lui una Deposizione.
La firmano insieme: dipinto nel 1966 da Kerouac e Franco Angeli in via Oslavia 41 a Roma.
È un mondo rapido, veloce, dove fortune e sfortune si creano in un attimo. Dove arriva Pierre Restany esubito organizza una mostra dei quattro, mettendoli su una vistosa rampa di lancio verso il successo. Dove piombano Leo Castelli e Ileana ( che diventerà più tardi Sonnabend) per reclutare Schifano, e lui li ripaga rubandogli la cinepresa in albergo. Dove poco dopo il povero Francesco Lo Savio viene isolato e ostracizzato dal fratello e dai suoi amici: colpevole ai loro occhi di esporre in una galleria che è diventata avversaria e di creare sculture troppo severe; non si presentano alla sua mostra, gli fanno terra bruciata intorno.
Il romanzo procede per flash, non sempre in ordine cronologico. O meglio per quadri: l’autore sceglie alcuni momenti di quelle vite come sineddochi, capaci di raccontarci una parte per il tutto. Ed è inevitabile, visto la vastità dell’argomento. Inevitabile anche che i protagonisti principali siano due, Schifano e Angeli, carismatici e irriducibili seduttori, travolti da un’infinita quantità di donne, schiavi di tutte le droghe possibili, prigionieri di contraddizioni insanabili: all’inizio militanti comunisti, poi finanziatori con le loro opere di Lotta Continua e Potere Operaio, sono però attratti dal lusso, si alternano tra gli Agnelli e i Franco Piperno, tra i viaggi in Urss e la nobiltà romana, tra Sandro Penna e Mick Jagger, tra il carcere e il manicomio e magnifici atelier, tra momenti di ricchezza e altri di tasche vuote.
Nel loro mondo si mescola ogni cosa. La devastante e autodistruttrice relazione tra Franco Angeli e Marina Lante della Rovere ne è forse il sintomo più evidente: lui la insulta per i suoi vestiti, le sue amicizie, le sue frivolezze, ma i due continuano a inseguirsi e tormentarsi per anni. È tutto troppo nelle loro biografie. E forse anche per questo ci sono molte assenze nelle pagine di Pomella, che non possono essere esaustive ( la relazione tra Angeli e Luisa Laureati, così importante per lui, non è nemmeno citata).
Ma l’assenza che si avverte di più è quella della pittura, trattata troppo sommariamente, quasi ridotta a fondale scenografico. Certo, è un romanzo e non un saggio. Ma, come dichiara l’autore nella nota finale, è un romanzo biografico e quelle biografie sono intessute di oli, acrilici, smalti, cemento, metalli, pennelli, telai e chissà cos’altro ancora i quattro del caffè Rosati hanno usato per mettere al mondo il loro mondo. Sono stati belli e dannati, sì. Ma sono stati, sopra ogni cosa, artisti.