PAOLO BARONI
ROMA
Mancano poco più di due mesi alla presentazione della Nadef, la famigerata Nota di aggiornamento che traccia il quadro dello stato di salute del Paese e dei margini di manovra rispetto ai conti pubblici, ma tutte le questioni sono già ben delineate sul tavolo del governo. C’è una economia in frenata e un gettito fiscale in calo, un fabbisogno in forte crescita e poi ci sono spese irrinunciabili, che quindi non possono essere rinviate, spese praticamente obbligate e tante altre voci (alcune pesantissime) legate alle tante promesse fatte in campagna elettorale destinate in larga parte a restare sulla carta o come si usa dire a Palazzo Chigi e d’intorni venir considerate «obiettivi di legislatura».
E questo vale sia per la riforma fiscale, con il taglio delle tasse che servirebbe ad alleviare i bilanci di tante famiglie messe alle strette dal crollo del loro potere di acquisto, sia la riforma delle pensioni che doveva servire ad abbattere la legge Fornero.
In questa fase Giorgia Meloni e tutto il governo sono come stretti in una doppia morsa, che ha un’unica origine: l’inflazione. Da un lato infatti la raffica di aumenti dei tassi decisi dalla Bce determina una ulteriore impennata del costo del nostro debito pubblico, 10 miliardi in più solo nel 2024 e 51 nel triennio 2024-2026, e dall’altro gli aumenti dovuti ai pensionati obbligano sulla carta il governo a reperire per l’anno venturo un’altra ventina di miliardi.
In cassa per effetto della legge di Bilancio 2023 il governo per impostare la manovra del 2024 si ritrova con appena 5,7 miliardi (4,5 miliardi di margine rispetto al deficit tendenziale e 1,2 miliardi frutto della spending review ministeriale) a fronte di un fabbisogno che in partenza si sa già viaggia tra i 25 ed i 30. Cifre che con l’aggiunta dei finanziamenti del Pnrr che tardano ad arrivare a causa dei ritardi che abbiamo accumulato, non sarà facile reperire. Questo almeno se si vuole rispettare il cammino di discesa del deficit e del debito pubblico, rispettivamente dal 4,5 al 3,7% del Pil e dal 142,1 al 141,4 (con uno 0,3% di avanzo primario) già concordato con Bruxelles e diventato oggi tanto più vitale nel momento in cui a livello europeo pende il rischio di riattivare nel 2024 i vecchi vincoli del patto di stabilità.
Del costo delle pensioni si è detto, e se i tavoli della riforma in queste settimane non produrranno come pare soluzioni sostenibili, occorrerà mettere in conto 1 miliardo per confermare l’attuale Quota 103 e le altre misure in essere. Ma sempre legato al costo della vita il governo si dovrà porre il problema del rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici. Un recupero pieno dell’inflazione pregressa, in questo campo, comporterebbe una spesa record di 32 miliardi lordi di cui 18 a carico del settore statale che viene finanziato dalla legge di Bilancio. Secondo il ministro della pubblica amministrazione Paolo Zangrillo per sbloccare i rinnovi basterebbero anche solo 7-8 miliardi. Ma anche questi vanno trovati.
Per la sanità era stata prevista una riduzione dal 6,7 al 6,3% del Pil della spesa, ma la situazione dei nostri ospedali, di fatto appena usciti dallo sconquasso prodotto dalla pandemia, è tale che i tagli andranno quanto meno dimezzati e per questo andranno reperiti all’incirca 3 miliardi di euro.
Sul fronte fiscale servono invece altri 10 miliardi per confermare il taglio del cuneo fiscale che scade a fine anno e poi, senza nulla aggiungere di altro, bisognerà trovare le risorse per detassare i premi di produttività e confermare lo stop a «sugar tax» e «plastic tax». Nel caso si dovessero prorogare sino a fine anno gli aiuti alle famiglie sul fronte del caro energia la proroga delle misure previste per il terzo trimestre costerebbe altri 800 milioni di euro.
Nel conto della spesa va poi messo l’aumento dell’assegno unico e il «pacchetto famiglia» inserito a suo tempo nel Def da Meloni, i nuovi finanziamenti per continuare a sostegno l’Ucraina e le inevitabili spese indifferibili e obbligatorie, a partire dalle missioni all’estero e dagli altri impegni internazionali, che come ogni anno peseranno sul bilancio dello Stato per almeno 2 miliardi di euro.
Per disporre di più cassa occorrerebbe spingere il pedale dell’acceleratore sulla lotta all’evasione, ma a quanto pare il governo da questo orecchio non ci vuole sentire, o tassare di più banche e multinazionali (tutte non solo quelle che operano nel digitale) come chiedono da tempo i sindacati. Anche su questo terreno però finora non si è andati oltre qualche sporadico proclama. Ma settembre è vicino ed il piatto già piange.