FRANCESCA WOODMAN
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di Sabino Cassese
Diminuiscono i votanti, è stato cosi anche in Sardegna e in Abruzzo. E se fosse una questione di istruzione?
D iminuiscono i votanti, in Sardegna dal 53,17% al 52,4% e in Abruzzo dal 53,11% a 52,19%. Ma se si misura l’affluenza alle urne nel cinquantennio di vita delle regioni, il calo è ben più vistoso. Nel 1970, quando si votò per la prima volta, quasi tutti gli elettori si recarono alle urne per scegliere i consiglieri regionali. Poi vi è stata una progressiva diminuzione e si è giunti alla partecipazione, nel Lazio, nel 2023, soltanto del 37,20%. Perdere due terzi dei votanti destina quasi alla irrilevanza politica la regione. Questo calo dovrebbe preoccupare per il fossato che si apre tra enti regione e comunità regionali.
L’affluenza alle urne diminuisce anche per le elezioni politiche nazionali. Nel 1953, fu del 93,84%. Da allora è andata lentamente scendendo, attestandosi ora al 63,91%. Le forze politiche dovrebbero essere preoccupate da questi risultati non solo perché segnalano un distacco tra poteri pubblici ed elettorato, ma anche perché basta una variazione dell’affluenza per cambiare interamente il risultato elettorale.
Perché questa progressiva diminuzione dei votanti? Perché metà o due terzi dell’elettorato non va alle urne? Perché questo distacco tra società e Stato, tra Paese reale e Paese legale, che si accompagna anche al forte calo degli iscritti ai partiti (dall’8 al 2% della popolazione), nonostante che gli italiani continuino a interessarsi della politica (pur senza cercare di farne attivamente parte)?
Una prima spiegazione potrebbe essere quella che l’elettorato fa affidamento sulla continuità di azione delle esistenti forze politiche e ha implicitamente fiducia in esse. Non sente quindi il bisogno di andare a votare. Ma questo non spiega la fiammata del 1970, quando in Lombardia si recò ai seggi il 95,51%, in Toscana il 95,88%, in Campania l’86,82% degli aventi diritto al voto. Né corrisponde al continuo cambiare, aggregarsi e suddividersi della classe politica.
Una seconda spiegazione è quella opposta, costituita dalla delusione, che produce rifiuto o apatia e comunque disinteresse, tutti elementi prodotti dalla debolezza dell’offerta politica. Ma l’offerta politica è cambiata nel tempo più volte e, quindi, non spiega il costante andamento decrescente dell’elettorato, sia a livello nazionale, sia a livello regionale.
È importante invece considerare un aspetto che riguarda il lato della domanda, quello del corpo politico, politicamente impreparato, per adoperare una espressione del grande storico della filosofia Guido de Ruggiero nella «Storia del liberalismo europeo» nel 1925. L’istruzione è un fondamentale strumento di democrazia, come ha sottolineato Vittorio Emanuele Parsi in un’intervista a cura di Danilo Breschi, pubblicata il 24 febbraio scorso in «Il pensiero storico»: «la democrazia presuppone una partecipazione attiva, una capacità di discernimento, […] ovvero di distinguere, per esempio le notizie vere da quelle false».
Questa diagnosi si collega ai livelli di istruzione. Secondo gli ultimi dati dell’Istat, relativi al 2022, solo il 63% di coloro che sono compresi nella fascia di età tra 25 e 64 anni ha un titolo di studio secondario superiore, mentre in Francia e in Germania la percentuale è dell’83%. Inoltre, in Italia solo il 20,3% ha un titolo di studio terziario, mentre in Francia e in Germania le percentuali sono rispettivamente 41,6 e 41,1%.
Il rapporto istruzione–suffragio è tanto più importante oggi in quanto è venuta a mancare la funzione educativa dei partiti e perché è declinante l’azione formativa dei media. I partiti non hanno più strutture e radicamento esteso sul territorio e nella società. I media sono in crisi, sopravanzati dalla comunicazione «many to many» assicurata dalla rete, fermi sul quotidiano, preoccupati più di dare notizie che di filtrarle e interpretarle, più di intrattenere che di educare.
Giovanni Giolitti, nelle sue «Memorie», osservava che, dando il diritto di voto a ogni cittadino che avesse compiuto il primo corso elementare, si poteva riuscire a debellare l’analfabetismo e a portare all’esercizio del diritto di voto tutti i cittadini. In Francia, nella prima metà dell’Ottocento, quando si discuteva dell’abbandono del suffragio censitario, si era convinti che l’istruzione conferisse il diritto di partecipazione e avrebbe consentito di sostituire al cittadino proprietario il cittadino competente. Il problema dell’educazione dei cittadini fu costantemente ripreso nella tematica dei grandi liberali perché si pensava che la capacità di scegliere e la capacità di essere scelti non fossero separabili: la capacità di essere elettori comportava anche quella di riconoscere chi possedesse le qualità per essere eletto.
Allora poteva bastare l’insegnamento obbligatorio primario o secondario, ora questa esigenza di istruzione è più forte perché tutti online trovano di tutto e bisogna saper scegliere.
Con una diffusione dell’istruzione si potranno forse evitare scivolate della democrazia come quella che sta vivendo l’Argentina o che potrebbe presentarsi negli Stati Uniti. Non si tratta, come pensano i populisti, di dare solo maggiore voce al popolo, ma di dare ad esso anche maggiore capacità di valutare e scegliere, che è il compito di chi vota.