di MASSIMO RECALCATI
La totale indifferenza che sembra circondare gli imminenti referendum non concerne tanto i contenuti che essi propongono, ma assai più in generale, il rapporto con la politica. E poiché a riconoscere nella passione per la politica una ragione fondamentale della vita individuale e di quella collettiva è stata nel nostro Paese la cultura di sinistra, in gioco è una evidente crisi di questa cultura a fare davvero presa sulla società civile.
Dato che diviene ancora più evidente e sconcertante se lo si rapporta alle nuove generazioni. Non tanto però per la loro mancanza di fondamentali — in un film di diversi anni fa Veltroni aveva mostrato quanto per le nuove generazioni un nome come quello di Berlinguer fosse del tutto sconosciuto –, ma perché la politica come tale non è più in grado di accendere le loro vite. Ai loro occhi essa appare come un discorso decrepito, incomprensibile, senza vita. E quando è accaduto che vi fosse uno slancio — penso alla mobilitazione giovanile ecologista a difesa delle sorti del nostro pianeta — si è subito proceduto a stigmatizzarlo come politicamente ingenuo e privo di prospettive. Di certo se la politica ha perso il suo valore ideale non è per una semplice inettitudine dei nostri figli. La crisi della politica assomiglia piuttosto proprio alla crisi ecologica: è talmente evidente e talmente profonda che ogni iniziativa per trattarla appare insufficiente, come provare a svuotare l’acqua del mare con un secchiello.
Dunque meglio ignorarla. Per esempio si potrà citare la formidabile manifestazione per l’Europa convocata da Michele Serra dalle pagine di questo giornale o le recentissime belle vittorie dei candidati di centro sinistra al governo di grandi città, per sconfermare la validità della mia diagnosi. Ma questi riferimenti positivi coprono il grande vuoto che ci circonda. Nel nuovo secolo i sogni di trasformazione del nostro paese concepiti da sinistra hanno avuto ai miei occhi due soli nomi, tra loro molto diversi, ma accomunati dall’avere reso possibile una politica riformista in grado di governare in modo nuovo il nostro paese, avvicinando alla politica gli entusiasmi profondi delle nuove generazioni. Si tratta di Vendola e di Renzi. Cosa era successo allora? Si era imposta l’idea che la politica potesse essere innanzitutto un laboratorio di idee, uno sforzo collettivo di poesia. E in molti ci avevano creduto. L’uscita di scena di Vendola, gli errori e il declino irreversibile di Renzi hanno spento quegli entusiasmi radicalmente riformisti, ma da allora a sinistra non è mai più accaduto nulla di simile. La politica è rientrata neiranghi dell’amministrazione, dei dossier, di un linguaggio incomprensibile e astratto fatto di slogan impotenti, di uomini e di donne più preoccupati di mantenere i propri posti che a scommettere sull’avvenire, di calcoli cinici sulle alleanze e sulle strategie elettorali. Ventola e Renzi sono stati invece due outsider della politica che a loro modo, sebbene per una breve stagione, hanno rappresentato degli antidoti efficaci di fronte alla marea montante dell’antipolitica populista. I soli in grado di parlare con forza irrituale, fuori dagli schemi consolidati dell’istituzionalizzazione, alle nuove generazioni. È proprio di questo antidoto che avrebbe bisogno ancora la politica per ritrovare la sua forza propulsiva. Non restare prigionieri del passato, dello scontro fazioso, del pregiudizio, delle barricate ideologiche. La passione per la politica non può essere sequestrata dalla sua istituzionalizzazione partitica. La sua condizione comatosa che l’astensionismo rivela in modo clamoroso non dipende allora tanto dall’indifferenza dei nostri figli, ma da una cultura di sinistra che ha sperperato un enorme patrimonio emotivo e intellettuale. È esistita una sinistra di governo in grado di trasformare effettivamente — come fece, per esempio, Vendola nel tempo della sua amministrazione riscattando una regione senza avvenire — la vita dei cittadini in termini di giustizia sociale, di diritti e di prospettive di progresso. Non potranno essere le recenti vittorie elettorali a guarire il corpo moribondo della politica. Sarebbe necessario uno scatto, un movimento nuovo, un progetto. Ma i politici di professione sono spesso i maggiori avversari della politica come passione. Sono talmente immersi nella vita ordinaria della piccola politica che si rivelano incapaci di compiere qualunque sforzo di poesia. Eppure è di questo sforzo che avremmo bisogno per riavvicinare i giovani alla politica.
Quando Marco Pannella sosteneva, in direzione ostinatamente contraria, la nobilità dell’istituto referendario raggiungendo obbiettivi politici che oggi tutti consideriamo irrinunciabili, il suo linguaggio sapeva spezzare il codice cristallizzato della politica istituzionalizzata. Sapeva allargare gli orizzonti incarnando una testimonianza credibile di cosa può essere la politica vissuta come passione. I nostri leader attuali non hanno più quella forza. Le loro parole sembra che ogni volta cadano nel vuoto dello slogan e in tatticismi senza cuore. Questo accresce la sensazione nelle nuove generazioni di essere orfani allo sbando. La politica che rientra nella scatola chiusa della politica istituzionalizzata non ha nessun futuro. L’invocazione ideologica — per esempio quella dell’antifascismo — diventa allora solo un mantra che ci fa sentire ancora vivi mentre siamo già morti.