di Gianluca Nicoletti
Non è facile liberarsi di un padre. È una battaglia eroica quando quel padre ci vorrebbe come suoi cloni, quasi fossimo la sua trappola per la morte. Mi sento molto vicino a Simone Leoni, il ragazzo dalla faccia mite che è stato costretto a dover ribattere a un genitore, indomito guerriero ex parà, che lo ha mortificato pubblicamente occupando un’intera pagina di giornale. Doveva però sanare l’onta che quel figlio snaturato avrebbe procurato alla sua linea di sangue, osando avanzare critiche al Generale Vannacci, senza peraltro nominarlo.
“Tu sei l’ultimo che si può rivolgere a Vannacci definendolo codardo. Vergognati! E ricordati che il coraggio, che tu non hai, Vannacci lo ha messo a disposizione non solo della Patria”. Seguendo con l’elenco delle gesta indubitabili del Generale, a cui il reprobo “cresciuto nella bambagia” non sarebbe “nemmeno degno di spolverare gli anfibi”.
Naturalmente un così veemente esempio di integrità paterna ha illuminato tutti quelli che credono che il mondo stia andando a rovescio, Vannacci in primis, che ha ringraziato il padre, probabilmente ammirandone lo zelo. Il figlio invece si è preso l’anatema, esprimendo comprensione per quel padre che, a quanto sembra, non pare sia stato molto presente nella sua vita.
Non voglio assolutamente entrare nelle vicende familiari dei Leoni padre e figlio, però non posso fare a meno di riflettere su come sia possibile per un padre nutrire un odio e un disprezzo così radicali per un figlio che lui ha generato.
Non voglio dare assolutamente lezioni di paternità, ma come si fa ad anteporre il proprio affanno nel affrancarsi da un pensiero che non si condivide, alla tenerezza che permanentemente ispira un figlio, anche se ha barba e baffi, anche se compie le peggiori nefandezze. Si badi bene però, in questo caso nulla di nefando, solo aver espresso un giudizio non compiacente sul Vannacci pensiero.
È una reazione che affonda le radici in un mondo che ben conosco e mi fa tornare a respirare la stessa aria che ricordo circolasse nella mia famiglia, dove sin da piccoli si era con insistenza istruiti sul fatto che, tutto quello che era accaduto dal 1945 in poi, altro non fosse che un immenso e vergognoso tradimento. Capisco quel padre anche se non posso condividere la sua rabbia, sicuramente provocata più che dal risentimento, dalla paura che le parole blasfeme del figlio potessero mai intaccare il giudizio sul suo onore e la sua fedeltà “all’idea”.
Mi fa quasi compassione il suo impegno nel compiere un’azione riparatrice, quasi temesse preventivamente di poter essere chiamato a rapporto dal suo Generale, a render conto di non esser riuscito a raddrizzare quel ragazzino ribelle e spudorato.
Mi sembra davvero un racconto d’altri tempi, non posso credere che ci possa essere ancora qualcuno che impugna seriamente il principio della progenie che “sdirazza”, un termine desueto che ho sentito però pronunciare tante volte in gioventù. Oggi mi sembra un concetto tanto vecchio, ammuffito, fuori del tempo. Non si può ancora pretendere che un figliolo adulto debba sempre e comunque porsi il problema di non contraddire i principi paterni, qualunque essi siano.
Avere padri che si vorrebbero divorare i figli, purtroppo è un destino che affonda radici nel mito. Non sia mai che uno di questi alzi la testa e si ribelli dall’essere masticato. Il genitore, che magari se l’era anche dimenticato, si infila di nuovo la dentiera da capobranco e subito lo azzanna.