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L’intervista a Cristiano Leone, presidente della Fondazione Santa Maria della Scala, è l’ennesima predica estetizzante di un potere che non riesce a governare, ma continua a raccontarsi. Un linguaggio seducente, poetico, autoreferenziale, che rimuove la realtà. È la stessa logica che alimenta da secoli la narrazione di Siena come “città-oracolo”, “laboratorio spirituale”, “capitale della misura”, evitando di fare i conti con ciò che è oggi: una città ferita, divisa, impoverita, in cerca di risposte che l’estetica non può dare.
Anche il Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti — oggi ridotto a simbolo rassicurante — nasceva in tutt’altro contesto. Fu realizzato in un momento in cui Siena portava ancora i segni della rivolta del 26 ottobre 1318, quando una sollevazione popolare mise in crisi l’oligarchia dei Nove. A distanza di vent’anni, quel trauma era ancora vivo: il potere aveva bisogno di ricompattarsi, e Ambrogio offrì un metalinguaggio capace di trasformare la paura in visione. Il suo affresco non mostra un ordine perfetto, ma la tensione tra ideale e realtà.
Oggi quel linguaggio viene ripreso senza tensione, né crisi. Il mattone a faccia vista del neogotico — frutto dei restauri ottocenteschi — è diventato norma visiva e senso comune: un “falso” condiviso, che semplifica la complessità del Medioevo in immagine rassicurante. Non è solo un errore stilistico, ma un meccanismo culturale che cancella conflitti e stratificazioni, imponendo una narrazione congelata.
La cultura, così, viene ridotta a scena. Si parla di “cura”, ma si evita il confronto con il presente. Le parole di Leone — pesate, levigate, evocative — non indicano un progetto reale, ma servono a confermare un ruolo. Manca il legame con la città viva, con chi la abita, con le sue fratture.
Siena non ha bisogno di sogni. Ha bisogno di verità. E forse l’unico modo per salvare il Buon Governo è smettere di usarlo come coperta simbolica. Solo così la cultura può tornare a essere utile. Non solo una posa.