Nel Giorno della Memoria, tocca ancora una volta a Sergio Mattarella dettare un codice etico all’Occidente, smarrito nel suo cupio dissolvi .Il dovere del Mondo di ricordare la Shoah come «male assoluto» e il pogrom disumano compiuto da Hamas il 7 ottobre.
Il dovere di Israele che «ha tanto sofferto» di non infliggere nuova sofferenza e di non negare uno Stato a un altro popolo. Ma il Presidente della Repubblica fa di più. Mentre segnala «il crinale apocalittico della Storia» che stiamo attraversando, coglie l’occasione per scuotere le coscienze sul pericolo che oggi corrono le democrazie liberali. «Il culto della personalità e del capo sono stati virus micidiali, prodotti dall’uomo, che si sono diffusi rapidamente, contagiando gran parte d’Europa…». Usciamo subito dal solito equivoco: nessuno vuole “tirare per la giacchetta” il Capo dello Stato.
Ripetiamolo, a beneficio della solita Sturmtruppen di servi sciocchi e squadristi digitali: nessuno pensa che le camicie nere stiano per marciare su Roma, né che l’Italia stia per scivolare nell’abisso di una dittatura nazifascista.
Ma nelle parole di Mattarella risuona comunque un’eco che di questi tempi ci è purtroppo familiare. Il «culto del capo» — predicato e praticato in una terra di cittadini infelici e infedeli alla democrazia — non è davvero il virus che ammalia il governo e ammorba la politica, contagia il Paese e contamina l’opinione pubblica? La voglia di uomo o di donna soli al comando non prepara forse il terreno alla svolta personalistica e autocratica che, mutuandola da Michele Ainis, abbiamo chiamato “capocrazia”? E quella svolta non sarà infine compiuta, nel momento in cui il popolo potrà eleggere il capo dell’esecutivo, distorcendo definitivamente la forma di governo e depotenziando irrimediabilmente gli organi di garanzia e i poteri neutri, il Quirinale e la Consulta, il Parlamento e la magistratura, le Autorità indipendenti e la libera informazione?
È il sogno berlusconiano, adesso meloniano, che può finalmente diventare realtà. Evaporata ogni passione ideologica, svanita ogni fiducia democratica, restano solo il primato del governo sulle assemblee elettive, il partito personale e presidenziale per vocazione, lo strapotere indiscusso del leader. È lui (o meglio lei) il catalizzatore del voto popolare, non servono più mediazioni di sorta. Istituzioni, congressi, sindacati, giornali: ferraglia arrugginita, inutile e dannosa. Commissioni europee e corti comunitarie, opinionisti e vignettisti, scrittori e imitatori, critici e intellettuali: sepolcri imbiancati e “culturame”, avrebbero detto le buonanime di Benito e Bettino. “C’è soltanto un re, attorniato da una corte e da una schiera di mille cortigiani” (ancora Ainis).
Mattarella parla dell’immane tragedia che nel Secolo Breve ci ha consegnato l’Olocausto. Ma la sua riflessione porta più lontano e più vicino, allo stesso tempo. Ai meccanismi di formazione del consenso, che possono snaturare la rappresentanza politica fino a renderla vana. Alle regressioni democratiche, che sul piano inclinato su cui scivolano le costituzioni formali fanno saltare la delega collettiva che ieri gli elettori consegnavano ai partiti e che domani conferiranno solo al capo. Senza check and balance, i “pieni poteri” sono un rischio incalcolabile: parti dal Bundestag, puoi arrivare ad Auschwitz. Agli auguri di fine d’anno alle Alte Cariche, il 21 dicembre, il Presidente aveva già indicato i valori che cementano la nostra Repubblica: «La libertà come premessa di pace, giustizia, uguaglianza, coesione sociale, dialogo, tolleranza, solidarietà. Dal rispetto della libertà di ciascuno discendono le istituzioni democratiche, l’equilibrio tra i poteri, il ruolo fondamentale del Parlamento, l’imparzialità… Su questi doveri si fonda la garanzia di libertà dei cittadini, e dunque la loro fiducia nelle istituzioni». Allora, ad ascoltare questa lezione repubblicana di Mattarella la premier non c’era: aveva l’influenza, benché in mattinata fosse in prima fila alla recita della figlia Ginevra. È un peccato. Ma non sarebbe servito a nulla. Meloni ha un disegno preciso. E lo porterà avanti.
Sulle “riforme che deformano” c’è oggi un patto scellerato, chevincola in una logica di scambio le tre destre al comando. A Fratelli d’Italia interessa il premierato forte, per gli istinti “capocratici” che abbiamo detto. Alla Lega sta a cuore l’autonomia differenziata, tributo postumo e pasticciato alla devolution che fu. A Forza Italia preme il pacchetto giustizia, dalla mordacchia alle toghe al bavaglio ai cronisti, dalla prescrizione abbreviata all’abolizione dell’abuso d’ufficio. A colpi di maggioranza, le norme attuative del patto stanno marciando. Agli alleati la presidente del Consiglio lascia le briciole, consapevole che a capotavola è seduta solo lei e che il piatto forte è solo il suo. La rotta è tracciata. Prima la vittoria netta alle elezioni europee di giugno, dove si presenterà capolista in tutte le circoscrizioni. Poi, sulle ali del successo personale e del “culto del capo” (per restare alla formula mattarelliana), il varo a tappe forzate nei due rami del Parlamento della «madre di tutte le riforme». Infine la grande sfida del referendum confermativo sull’elezione diretta del premier.
L’insolenza nei toni, la violenza degli attacchi alle opposizioni, l’insofferenza verso le critiche, l’intolleranza verso i giornalisti.
Tutto rientra nella costruzione e nella delegittimazione dei “nemici”, quasi sempre immaginari. Le accuse ai Poteri Forti e le Veline nere contro i giornali. Tutto fa parte della sindrome del complotto, che giustifica l’occupazione del potere e la torsione delle regole. Abbiamo sbagliato a sottovalutare la riforma costituzionale sul Premierato. Non è affatto un’arma di distrazione di massa, o una via di fuga per i momenti di difficoltà del governo. È un progetto reale, che la Sorella d’Italia perseguirà a ogni costo.
Serve a lei, per comandare la Nazione e la coalizione. Serve ai suoi Fratelli, per ripulirsi e finalmente rinascere come vera e legittima “forza costituente”. È con quel plebiscito, prima parlamentare e poi popolare, che un partito post-fascista può forgiare con la fiamma che arde nel suo simbolo la “nuova Costituzione” a-fascista. Senza passare da quella antifascista del 1948, senza aver saldato i conti con il suo passato. Il referendum confermativo è a tutti gli effetti un “atto fondativo”: non solo di una leadership, ma di un mutato ciclo storico, politico, culturale. È questa la posta in gioco, per la destra meloniana. E purtroppo la fase è propizia. Basta leggere le Mappe di Ilvo Diamanti. Il “leader forte” piace al 58% degli italiani, l’elezione diretta del premier al 55. Il 44% pensa che la democrazia possa funzionare senza i partiti, una quota che sale al 53% nella classe di età tra i 18 e i 29 anni e addirittura al 62% in quella tra i 30 e i 44 anni. Anche su questo Meloni mostra una spiccata attitudine all’ascolto della pancia del Paese: il suo slogan per la contesa referendaria, rivolto ai cittadini, dice «volete ancora far scegliere dai partiti chi vi deve governare?». Ancora una volta, la politica che cavalca l’anti-politica. È l’essenza del neo-populismo: reinventato da Silvio, sublimato da Beppe, rilanciato da Giorgia. Se solo il Pd lo capisse e si attrezzasse, invece di perdersi a cercare se stesso. Come quel turco ubriaco, il 50enne Beyhan Mutlu, che qualche anno fa, dopo la scomparsa di un uomo, partecipò alle ricerche. Senza rendersi conto che il ricercato era lui.