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31 Luglio 2022
di Angelo Panebianco
C’è qualcosa di paradossale nella questione del «centro» di cui tanto si parla in Italia, e da molto prima della caduta del governo Draghi. Il paradosso consiste nel fatto che si tratta di una questione importante da un certo punto di vista e irrilevante da un altro. È importante se ci si riferisce al funzionamento della democrazia. È irrilevante se si considerano invece le scelte che devono fare i politici nonché i singoli elettori.
Se osserviamo il funzionamento delle democrazie possiamo constatare che la presenza di un centro serve a dare loro stabilità, a tenere a freno i bollenti spiriti degli estremisti (di sinistra e di destra). Il centro può essere occupato da un partito. Oppure può essere l’area elettorale verso cui le coalizioni di partito devono convergere se vogliono vincere le elezioni. In entrambi i casi il centro è il luogo della moderazione e del pragmatismo. Più è forte (più ampia è la parte di elettorato che si trova lì) e meno capacità hanno le estreme di condizionare il gioco politico. Quando il centro si svuota, perché il grosso degli elettori fugge verso le estreme, la democrazia è a rischio. Dall’Italia prima del fascismo a Weimar, al Cile di Allende, è lungo l’elenco dei casi in cui lo svuotamento del centro ha decretato la morte della democrazia. La polarizzazione in atto da tempo nella democrazia americana è precisamente ciò che rende gli osservatori preoccupati per il suo futuro.
L’Italia è, da questo punto di vista, un altro caso a rischio. Si pensi al trionfo populista nelle elezioni del 2018. Fu un caso evidente di svuotamento del centro. Ed è un fatto che dopo il fallimento politico dei populisti, un «centro» si sia miracolosamente (ma provvisoriamente ) ricostituito con il governo Draghi. Non è un caso se la caduta di Draghi ha spinto molti a ipotizzare una incombente crisi di sistema.
Ma se ha senso discutere del centro quando si considera il funzionamento delle democrazie, non ne ha invece quando ci si occupa di offerte politiche e di scelte elettorali. Immaginate un candidato che vi venga a dire «io sono un politico di centro» e pretenda di essere votato da voi sulla base di questa dichiarazione. Costui, in realtà, vuole un mandato in bianco, vuole mettersi in una posizione che gli consenta di trattare con chiunque, a sinistra o a destra. Non vale la pena di starlo a sentire oltre.
Quando si ragiona sulle offerte politiche si deve cambiare registro. Bisogna allora occuparsi dei contenuti delle proposte. Il problema italiano,da questo punto di vista, consiste nel fatto che nel menù che fino ad ora è stato presentato agli elettori manca un piatto. La sua assenza non permette di soddisfare il palato di una quota di italiani (non sappiamo quanto grande ma probabilmente non piccola) che non apprezza, per l’una o l’altra ragione, né l’attuale destra né l’attuale sinistra.
Non apprezza la destra per vari motivi. Non ci sono solo, entro la destra, le divisioni sull’Ucraina (Meloni di qua, Salvini di là). C’è anche il rischio di uno scontro con le autorità di Bruxelles (indovinate chi ne sarebbe più danneggiato?). La pericolosa idea secondo cui dei vincoli europei possiamo sbarazzarci spiega le promesse elettorali della Lega ma anche quelle di Fratelli d’Italia: il Foglio ha meritoriamente mostrato quale impatto negativo sui conti pubblici avrebbero se venissero davvero mantenute. La variante del nazionalismo (il cosiddetto sovranismo) di cui la destra è fautrice propone l’ideale di una società chiusa, l’irrealizzabile speranza di spezzare le catene dell’interdipendenza che legano noi, come tutti, in Europa. C’è chi si attarda, come un disco rotto, a lanciare allarmi sul risorgente «fascismo». Ma il pericolo, se vince la destra, non è il Fascio. Il pericolo è lo Sfascio.
Ma questi elettori, se non apprezzano la destra, hanno riserve anche sul Partito democratico. Molti di loro condividono con la destra l’idea che, se lasciato a se stesso, il Pd sia il partito delle tasse. Con un occhio di riguardo più per i ceti impiegatizi che per il mondo delle professioni qualificate. Per altri, o anche per gli stessi, ha il torto di avere dato per anni copertura ai settori più politicizzati della magistratura. O di avere lasciato la scuola in mano ai sindacati. Nonché quello di essere un partito che in nome della correttezza politica è pronto a sostenere l’insostenibile. Per esempio, era noto a chiunque che il disegno di legge Zan fosse mal scritto e mal concepito. Una legge mal scritta, semplicemente, trasferisce dal Parlamento ai giudici il potere di legiferare (attraverso le sentenze). Ma le rigidità ideologiche impedirono al Pd di accettare ragionevoli correzioni. O si pensi al fatto che, sempre in nome della correttezza politica, il Pd fatica a darsi una politica realistica in materia di immigrazione. O la capacità di distinguere fra le componenti del mondo islamico italiano con cui si può e si deve dialogare e quelle con cui non si può e non si deve. C’è poi la questione del rapporto con i 5 Stelle. Certamente Enrico Letta ha perseguito per un lungo periodo l’alleanza con i grillini non perché li pensasse a sé affini ma perché lo riteneva tatticamente necessario. Ma ci sono correnti del suo partito la cui vicinanza ai 5 Stelle implica vera affinità ideologica o culturale. Nessuna remora, per queste correnti, ad allearsi con una forza con tendenze illiberali. Semplicemente, sono della stessa pasta.
Il Pd è certamente un partito la cui affidabilità, quando si tratta della nostra collocazione internazionale, è garantita. E questo, coi tempi che corrono, è certamente tanto. Ma, come ha mostrato la vicenda del governo Draghi, il Pd ha bisogno di forze esterne che siano in grado di neutralizzare o quanto meno di bilanciare il cripto-grillismo che, insieme a diverse cose positive, quel partito si porta in pancia.
Un tempo i piccoli partiti laici, messi insieme, rappresentavano una discreta percentuale dell’elettorato. Diciamo che ciò che manca è una offerta politica che possa essere allettante per molti elettori rimasti privi di una rappresentanza che li soddisfi. Se una tale forza si affermasse ciò comporterebbe la ricostituzione del «centro»? Forse sì. Ma sarebbe un effetto, per così dire, preterintenzionale. Non sarebbe certo questa (giustamente) la ragione per cui gli elettori la sceglierebbero.