Massimo Recalcati
I riferimenti
Sappiamo che esiste una forza e una poesia nella solitudine. Sappiamo che senza la «capacità di restare solo», come si esprimeva un grande psicoanalista come Winnicott, non si dà alcuna possibilità di generare legami sociali fecondi. Sappiamo anche che nella solitudine l’Altro resta sempre presente, pur nella forma dell’assenza. È la solitudine che spesso accompagna la sublimazione artistica o quella spirituale che, come tali, sono esperienze altamente creative. Totalmente diversa appare invece la fisionomia dell’isolamento. Qui non c’è alcuna forza né alcuna poesia. Qui non c’è più nessun Altro, se non la spinta al suo azzeramento. Qui non c’è all’orizzonte alcuna esperienza creativa ma solo una mortificazione della vita. L’isolamento annienta, infatti, la dimensione sociale della nostra esistenza.
Mentre la solitudine può scaturire da una scelta vitale, l’isolamento appare piuttosto come una condizione subita, l’esito di una impossibilità di scegliere, di un naufragio, di una derelizione dell’esistenza. Nel nostro tempo l’isolamento è divenuto una vera e propria piaga sociale. Questo significa che la nostra condizione di vita che appare così più esposta agli stimoli e ai contatti sociali rispetto al passato, rischia di essere solo apparenza. In una società dove la vita media si è straordinariamente allungata, l’aumento della popolazione anziana si associa molto frequentemente al ritiro dai legami sociali, dalla comunità, dalla vita. Dato che si potenzia ulteriormente se lo si associa alle condizioni di precarietà economica e di fragilità soggettiva che spesso accompagna la vita dei nostri anziani. Con l’aggiunta tragica che l’aggressività darwinana del Covid li ha colpiti con particolare virulenza decimandoli letteralmente, esasperando la loro condizione di abbandono. Ma non sono solo gli anziani a sperimentare il laccio mortale dell’isolamento. Il circo della società dello spettacolo e dei consumi, dell’individualismo e del profitto, tende ad isolare tutti coloro che non sono in grado di sostenere un livello adeguato di prestazione.
L’isolamento diventa allora una sorta di prigione-rifugio che ripara dalle ferite e dalle umiliazioni imposte da una vita sociale concepita come una gara senza esclusione di colpi. Non a caso sono moltissimi i giovani che rinunciano alla loro libertà per appartarsi, per uscire fuori dalla giostra infernale di una vita obbligata a vincere. La terribile esperienza della pandemia ha esasperato questa tendenza che era però già presente in tutto l’Occidente. L’isolamento non colpisce solo anziani e giovani ai margini del ciclo produttivo, ma anche coloro che appaiono come dei suoi protagonisti. È, per esempio, l’isolamento di chi vive strenuamente impegnato nel proprio lavoro, ma che non è più in grado di coltivare legami generativi di nessun tipo. È l’isolamento di molti – uomini e donne – , che avendo consacrato la loro vita alla propria professione si accorgono di avere fatto terra bruciata attorno a se stessi. In questo senso si tratta di una piaga sociale che riflette l’altra faccia del discorso del capitalista. È l’ombra spessa che incalza l’apparente euforia permanente a cui sembra obbligarci la civiltà ipermoderna. Essa può trovare un suo paradigma clinico nella figura inquietante degli accumulatori compulsivi (secondo il Dsm “disturbo da accumulo”) che riempiono le proprie abitazioni di oggetti di ogni genere, privi di qualunque utilità e accatastati alla rinfusa. Si tratta di oggetti morti, spogliati di qualunque finalità, di oggetti devitalizzati che hanno il solo scopo di riempire un vuoto inestinguibile. Ma, in realtà, questo riempimento non sottrae affatto la vita dal suo isolamento, bensì lo accresce ulteriormente.
È la triste verità che accompagna, in generale, la cosiddetta società dei consumi. Le cose hanno preso il posto delle persone, ma la loro presenza in eccesso anziché costruire legami li disfa rendendoli impossibili come diventa impossibile muoversi nei corridoi e nelle stanze delle case stracolme di oggetti morti accumulati dai soggetti affetti da disturbo di accumulo. È lo stesso che accade, per citare un’altra figura clinica tipica dell’isolamento ipermoderno, nell’iperconnessione tecnologica. L’ideale positivo della connessione sistemica si capovolge qui in una disconnessione drammatica e silenziosa raggiunta proprio come esito paradossale di una iperconnessione illimitata, senza pause, senza tregue. L’isolamento è probabilmente destinato a diventare, se non lo è già, la cifra antropologica più inquietante della civiltà ipermoderna. La moltiplicazione illimitata dei “contatti” e l’espansione della tecnologia che li rende possibili, mascherano il reale scabroso di questa nuova condizione di vita.