l’analisi
Stefano Stefanini
Svolta diplomatica a Gedda: intesa ucraino-americana e incognita russa. I colloqui hanno riallineato Kiev e Washington di fronte a Mosca. Americani e ucraini hanno infatti concordato una proposta di “immediato” cessate il fuoco di trenta giorni, sorretta dalla ripresa degli aiuti militari e dell’intelligence americana, con Washington che incassa l’accordo sui minerali e terre rare ucraine. Come risponderà Vladimir Putin? Finora aveva categoricamente rigettato scenari armistiziali, spiegando di non aver ancora conseguito tutti gli obiettivi che si proponeva con “l’operazione speciale”. Pensa di star vincendo. Perché smettere? Donald Trump è sicuro che il presidente russo sia pronto alla pace. L’ha detto. Ora lo mette alla prova.
I colloqui ucraino-americani di Riad si sono potuti concludere rapidamente perché hanno trovato un concreto punto d’incontro fra l’obiettivo dell’amministrazione Trump di mettere fine alla guerra e l’irrinunciabile esigenza ucraina di non essere lasciati in balia della Russia. Regola diplomatica: concentrare il negoziato su un risultato positivo raggiungibile nell’immediato futuro. L’intesa è stata infatti ottenuta circoscrivendo l’accordo all’armistizio di un mese – non è ancora la fine della guerra, tanto meno un accordo di pace, crea solo le condizioni per passare a negoziare l’una e l’altro – ma intanto, come ha ribadito enfaticamente il Segretario di Stato, Marco Rubio, fa terminare perdite di vite umane, distruzioni, vittime civili – reciproche specie dopo il massiccio attacco di droni ucraini a Mosca. La delegazione americana si è dilungata nel sottolineare che questa era la priorità del Presidente americano. Che incassa dunque da Gedda il risultato che voleva (minerali compresi). Giuria di Stoccolma del Nobel per la pace, prendere nota.
Molto soddisfatti Rubio e Michael Waltz, sollevati anche gli uomini di Zelensky: Andriy Yermak, Andrii Sybiha, Rustem Umerov. Prima dell’incontro erano stati bombardati dal ritornello americano «dovete fare concessioni». Evidentemente le hanno fatte, o hanno indicato disponibilità a farle. Di sicuro perdite territoriali ma senza per ora rilasciare cambiali in bianco. Il cessate il fuoco immediato congelerebbe il fronte dove si trova al momento in cui entra in vigore, compreso probabilmente il pezzetto di territorio strappato alla Russia nell’oblast di Kursk. Poi nel negoziare il passaggio dai trenta giorni a una pace duratura si vedrà quali e quante concessioni fare. Da Riad, gli ucraini incassano una cosa fondamentale: la continuazione dell’appoggio americano che era stato sospeso, e messo in dubbio, dopo l’agitata visita di Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca.
Forse, a posteriori, non tutto il male vien per nuocere. Lo scontro dell’Ufficio Ovale, sotto le telecamere, è servito a mettere in chiaro le rispettive posizioni sul come giungere alla fine della guerra. Per Zelensky, pace senza resa alla Russia; per Trump e JD Vance, pace con gratitudine ucraina agli Usa. Il messaggio americano, massaggiato dalla sospensione dell’assistenza americana, è certamente arrivato a destinazione: la delegazione ucraina si è profusa in ringraziamenti al presidente americano – prendere nota anche di questo. Ma anche quello ucraino sembra essere stato metabolizzato, tant’è che il successivo passo diplomatico Usa sono stati i colloqui di Gedda. Inizialmente Kiev era stata cortocircuitata dal dialogo russo-americano, ora rientra in gioco con una proposta ucraino-americana a Mosca. Che gli sarà sicuramente costata le “concessioni” richieste da Washington ma gli evita di trovarsi alle prese con un fatto compiuto russo-americano.
Il fatto compiuto è diventato invece ucraino-americano ed è Mosca che se lo trova sul tavolo. Ha il pregio della semplicità – 30 giorni di tregua – e della difficoltà a respingerlo senza una buona ragione – ma quale potrebbe essere? Che solidarietà internazionale potrebbe trovare un “nyet” russo? Non del fronte “neutrale” che annovera il resto dei Brics, Cina compresa. Putin non esiterebbe a dire di no a Trump – su questo il presidente americano forse si illude. Ma qui deve arrampicarsi sugli specchi – o semplicemente arroccarsi sulla scelta di continuare la sua guerra, pardon operazione speciale, infischiandosene di qualsiasi opinione non russa o spregiudicatamente filorussa. Molto guardinga l’iniziale reazione di Mosca: aspettiamo di sentire dagli americani cosa c’è nella loro proposta, ha prudentemente detto Dmitry Peskov. Che significa: vogliamo capire che concessioni hanno estorto a Gedda.
La delegazione ucraina sembra infatti aver rinunciato a quelle “garanzie internazionali” che erano state il casus belli dell’incontro di Zelensky a Washington. Apparentemente: è un rinvio del problema. Per un cessate il fuoco di un mese non servono garanzie. Se ci si arriva è uno stato di fatto che tiene sul terreno. L’esigenza delle garanzie rispunterà dopo, nel passaggio a uno stato duraturo di armistizio o pace. Qui tutti i giochi, compreso il ruolo chiave degli europei, sono ancora aperti. Del resto, la tregua di un mese non era inizialmente un’idea franco-britannica? Ma Macron e Starmer saranno più che lieti di lasciarne la paternità a Donald Trump. Ben venga, se riesce a farlo accettare a Vladimir Putin.