«Una corda stretta attorno alla sua fronte fu attorcigliata a tal punto che gli occhi schizzarono fuori e, dopo aver subito una tale tortura, alla fine fu ucciso a bastonate»: questa, stando al fosco resoconto degli Excerpta Valesiana, la fine di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (c. 480-525 d.C.), il più celebre filosofo e letterato di età teodoriciana, la cui parabola esistenziale riflette tutte le contraddizioni di un’epoca complessa e turbolenta, quella in cui – fra la seconda metà del quinto e la prima metà del sesto secolo –, matura la lenta transizione fra (tarda) Antichità e (alto) Medioevo.

Rampollo di una delle famiglie più eminenti dell’élite senatoria di Roma ormai da tempo cristianizzata – quella gens Anicia che vantava di discendere dagli Anicii di Preneste, celebri già in età repubblicana, e in cui secondo Girolamo solo raramente si trovava qualcuno che non avesse meritato il consolato –, Boezio era stato a lungo emblema della politica di collaborazione dell’aristocrazia romana con i nuovi regnanti di origine barbara. Scelto da Teodorico, quand’era ancora giovanissimo, come suo consigliere scientifico, si era distinto per una brillantissima carriera presso la corte ostrogota, culminata nel settembre del 522 con la nomina a magister officiorum, prima di cadere in disgrazia per il coinvolgimento in un complotto di palazzo ed essere condannato a morte dal Senato dietro l’accusa di sedizione e uso di arti magiche. Soprattutto, già poco più che ventenne Boezio aveva concepito un progetto – unico per i suoi tempi – di sistematizzazione del sapere filosofico, progetto che fu inaugurato dai trattati dedicati alle arti del quadrivio – il De institutione musica, in particolare, fu per tutto il Medioevo il principale riferimento in ambito di teoria musicologica –, e culminò nell’ambiziosissimo proposito di tradurre in latino tutte le opere di Platone e Aristotele; il programma era destinato a naufragare, ma non prima di aver fornito, grazie alle traduzioni e ai commenti dell’Organon, le basi della logica scolastica medievale.

Se i trattati e gli opuscoli costituiscono le opere di maggior impegno del Boezio filosofo e teologo, il capolavoro letterario è però il De consolatione philosophiae, dialogo prosimetrico fra l’autore e Filosofia, composto nel carcere di Pavia nei mesi che precedettero l’esecuzione. Di quest’opera è da poco disponibile una nuova edizione con traduzione italiana e commento (Consolazione della Filosofia, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, pp. LXXX-380, € 50,00), curata da Peter Dronke e tradotta da Michela Pereira (l’introduzione e il commento di Dronke, più le sezioni in prosa del testo latino) e da Piero Boitani (i carmi). Il volume, che fa seguito al monumentale progetto – cinque volumi nella «Valla» – dedicato da Dronke al De divisione naturae di Giovanni Scoto Eriugena, costituisce uno degli ultimi lasciti del grande medievista di Cambridge, morto nel 2020 e legato fino all’ultimo alla figura di Boezio: molti suoi allievi lo ricordano, seduto in prima fila nella cappella del Pembroke College, assistere nel 2016 all’anteprima di Songs of consolation, il progetto dedicato al De consolatione da «Sequentia», l’ensemble di musica medievale a cui Dronke era legato da una lunghissima collaborazione.

Proprio alla fortuna – anche quella musicale – della consolatio sono dedicate le pagine più preziose dell’introduzione, in cui Dronke, mettendo a frutto decenni di ricerche, traccia un avvincente affresco delle molteplici traiettorie in cui si ramifica la ricezione dell’opera boeziana, che per tutto il Medioevo è alla base non soltanto di un profluvio di commenti e traduzioni (a cominciare da quella, in antico inglese, di Alfredo re di Wessex), ma anche di vere e proprie riscritture. A questa corrente, che Dronke definisce «quella degli incontri personali con Filosofia», risale l’affascinante frammento del Boecis occitanico, che ha per protagonista un cavaliere incarcerato con l’accusa di aver invitato i Greci a prendere possesso di Roma; ma al ‘mito medievale’ della consolatio – citata diverse volte nel Convivio e nella Commedia – si rifà abbondantemente lo stesso Dante, come puntualizzato un decennio fa da Luca Lombardo (Boezio in Dante. La Consolatio philosophiae nello scrittoio del poeta, Edizioni Ca’ Foscari 2013).

Nell’ormai affollato panorama di studi e traduzioni dell’opera boeziana – l’ultima in italiano, del 2019, è quella di Fabio Troncarelli per Bompiani –, quest’edizione «Valla» si distingue soprattutto per il commento, in cui Dronke offre una guida al contempo equilibrata e personale ai grandi temi dell’opera. Lo dimostrano già le osservazioni sull’elegia iniziale Carmina qui quondam studio florente peregi («I versi che un tempo composi con giovanile ardore») – che secondo Dronke mostra la stessa qualità «essenzialmente menippea» dell’inno a Imeneo che apre le Nozze di Mercurio e Filologia di Marziano Capella –, e quelle sulla celebre epifania ‘platonica’ di Filosofia, che allontana dal letto di Boezio le Muse, «sgualdrine da palcoscenico», per cominciare con lui la sua «psicoterapia». Ma è da ammirare anche la minuta ricognizione dei debiti di Boezio con la tradizione diatribica e filosofica antica e con gli auctores di età classica – innanzitutto Virgilio e Seneca –, che emerge ad esempio dal dettagliato commento riservato all’ultimo canto del quarto libro, in cui Agamennone, Ulisse ed Eracle assurgono a emblemi della lotta del sapiens contro le avversità del destino. Restano invece un po’ in ombra, rispetto alle più recenti prospettive della critica, i rapporti di Boezio con la tradizione consolatoria antica e tardoantica, ultimamente messi a fuoco da Antonio Donato (sua l’ultima monografia italiana dedicata all’autore, Boezio: un pensatore tardoantico e il suo mondo, Carocci 2021, che poteva essere segnalata ai lettori fra gli aggiornamenti bibliografici).

Se, come dimostra Dronke, per comprendere Boezio è necessario illuminare i legami con la tradizione culturale di cui egli era imbevuto, per l’esegesi dell’opera sarà decisiva la valorizzazione della fenomenologia letteraria del prosimetro. I trentanove carmi della consolatio, con i loro ventuno tipi di versi combinati in ventisette modalità diverse, rappresentavano già per Lupo di Ferrières – come più tardi per Niccolò Perotti – un’impareggiabile summa della metrica latina. Pur senza scendere in dettagli troppo tecnici, in questa «Valla» le osservazioni sulla struttura metrica e il ritmo dei carmi risultano sempre funzionali all’interpretazione del testo; soprattutto, le traduzioni di Piero Boitani consentono al lettore di apprezzare sia le liriche in cui sono più evidenti le reminiscenze classiche (penso ad esempio al canto su Orfeo ed Euridice che chiude il terzo libro, Felix qui potuit / fontem visere lucidum, fittamente tramato di intertesti virgiliani e ovidiani), sia quelle più teologicamente impegnative, come l’inno O stelliferi conditor orbis («O fondatore dell’orbe stellato») – la richiesta d’aiuto gridata da Boezio quando immagina i suoi accusatori «sguazzare nell’allegria e nel divertimento».

Al di là di ogni pur importante questione esegetica, infatti, con il suo singolarissimo impasto di prosa e di poesia, di erudizione filosofica e di meditazione esistenziale, la Consolatio rimane un testo esemplarmente capace di parlare alle vite dei suoi lettori: dopo aver rievocato la propria avversione giovanile per l’opera boeziana, resagli indigesta dalla sussiegosa definizione di Edward Gibbon («un aureo volume, non indegno del tempo speso per leggerlo, come Platone o Cicerone»), è lo stesso Dronke a descrivere la liberatoria scoperta che «la Consolatio non era “aurea”, e decisamente non era un’opera per il tempo libero». Proprio per questo, chiosa lo studioso, è sempre il caso di rileggerla.