l’analisi
Viet Thanh Nguyen
L’amministrazione Trump sta modificando le politiche di lunga data degli Usa nei confronti dell’Europa, e in Europa c’è chi prova un senso di tradimento, oltre che di choc e di incredulità. È una sensazione comune ad almeno la metà degli americani, e io sono fra questi. Certuni si sentono traditi dopo aver assistito all’attacco sferrato dall’amministrazione Trump ad alcuni principi che hanno a cuore, come il sistema di freni e contrappesi fra le branche del governo o la fede in libertà fondative – penso alla libertà di parola – della democrazia e dell’eccezionalismo americani.
L’ultimo esempio in ordine di tempo che illustra la minaccia rivolta alla tradizione americana di libertà di parola e di dissenso è la vicenda di un ex studente della Columbia University, l’attivista palestinese Mahmoud Khalil, fatto sparire dall’ICE-Immigration and Customs Enforcement. Khalil si era messo in luce nelle proteste inscenate alla Columbia a favore dei palestinesi e contro il genocidio in seguito al 7 ottobre e alla genocidaria aggressione israeliana a Gaza. Poiché quelle proteste sono state le più visibili di tutti gli Stati Uniti, i sostenitori di Israele hanno accusato Khalil di spalleggiare Hamas (accusa che non appare corroborata da alcuna prova). Adesso sembra che il Segretario di Stato Marco Rubio stia pensando di deportare Khalil (il quale risiede legittimamente negli Stati Uniti) appigliandosi a un oscuro provvedimento che consente l’espulsione di chi sostiene una potenza straniera.
Noi statunitensi abbiamo ogni motivo di temere le implicazioni del fatto che il governo possa deportare chiunque decida arbitrariamente di etichettare come sovversivo. Dobbiamo però tenere a mente che questo tradimento dei principi americani non è nuovo, anzi si è verificato a ripetizione nella storia degli Stati Uniti. Già prima della deportazione, nel 1919, di Emma Goldman e di altre 249 persone accusate di estremismo dal governo, per tutto il XIX secolo si erano avute deportazioni di massa su scala ancor più vasta nei confronti delle popolazioni indigene, costrette a lasciare le loro terre e a stabilirsi in riserve isolate. Successivamente, negli anni ’30 del secolo scorso fu il turno dei messicani e dei messico-americani (furono deportate in Messico fra le 300mila e i 2 milioni di persone, molte delle quali con cittadinanza statunitense), e durante la seconda guerra mondiale dei nippo-americani, 120mila dei quali furono rinchiusi in campi di concentramento. È proprio allo stesso provvedimento che permise la deportazione dei nippo-americani che Trump sta pensando di appigliarsi per le deportazioni di massa che medita.
Un’altra non-novità è la propensione degli USA a tradire i loro alleati. Essa risale agli albori della colonizzazione europea dei territori poi divenuti gli Stati Uniti d’America. I popoli indigeni che stabilirono rapporti amichevoli con i coloni europei, o che trattarono con loro, finirono poi con il perdere quasi tutte se non tutte le loro terre; e i coloni e gli americani non esitarono a rimangiarsi gli accordi conclusi con le popolazioni indigene.
Del resto, i principi fondativi degli Stati Uniti in fatto di libertà, di democrazia e di uguaglianza – i quali, insieme alle sconfinate opportunità economiche, alimentano gli ideali mitologici del “sogno americano” e dell’eccezionalismo americano – non erano certo a disposizione di tutti. Fu un tradimento di quei principi l’aver negato il diritto di voto alle donne fino al 1920, o l’aver classificato gli africani schiavizzati e i loro discendenti come tre quinti dei bianchi all’epoca dell’indipendenza americana. Se è così, allora la sparizione di Mahmoud Khalil – o il “rapimento”, a detta di sua moglie – non è certo una novità alla luce di tradimenti del passato, come strappare bambini indigeni ai genitori e spedirli in scuole cristiane per sradicare le culture native, o rapire africani per renderli schiavi in America.
Tuttavia, per i sostenitori di Trump e della sua amministrazione – fra i quali non soltanto Elon Musk, ma anche loschi sodali come il magnate dell’high-tech Peter Thiel, entrambi di origini sudafricane – il vero tradimento è quello perpetrato ai danni dei bianchi. Per costoro, le politiche a favore della diversità, dell’equità e dell’inclusione altro non sono che nomi in codice di un presunto razzismo anti-bianco che punterebbe a discriminare i bianchi per indebolire gli Stati Uniti. Il corrispettivo è forse la tendenza di Trump a considerare ogni alleanza come un segno di debolezza: quando sei un uomo forte a capo di una potenza imperiale, a che cosa ti servono gli alleati? Bastano gli omaggi dei vassalli.
Sul piano interno, analogamente, il movimento MAGA si rifà all’America del XIX secolo, fiera del suo suprematismo bianco, dove i non bianchi sono ammessi soltanto se subalterni. Può anche capitare che dei non bianchi assurgano a posizioni di alto profilo, come nel caso di come Usha Vance, la consorte del vicepresidente, e di Kash Patel, il nuovo capo dell’FBI, entrambi di origini indiane. Purché queste eccezioni non siano troppo numerose e rimangano puramente simboliche.
La pretesa di subalternità e la realtà del tradimento si estendono anche ai proxy, alle terre di conquista, ai subordinati e agli alleati degli Stati Uniti. Penso alle Filippine, che gli Stati Uniti “liberarono” dagli spagnoli nel 1898 solo per colonizzarle nei 48 anni successivi. Penso anche ad esempi più recenti, come il Vietnam del sud, l’Afghanistan, l’Iraq e l’Ucraina. Io stesso sono cresciuto in una comunità di rifugiati che cercarono riparo negli Stati Uniti dopo la sconfitta del Vietnam del sud, e posso testimoniare la loro sensazione di essere stati traditi dagli USA. Nel 1973, infatti, come condizione per ritirarsi dal Vietnam del sud Washington aveva promesso di venire in aiuto a quel paese, dopo avergli imposto di dotarsi di forze armate sul modello americano e di adottare le strategie militari dettate dai generali americani. Due anni dopo, però, quando i comunisti del nord organizzarono l’invasione finale del sud, gli USA non si sognarono neanche di mandare bombardieri, né di fornire ai sudvietnamiti le munizioni e il carburante necessari per far funzionare gli aerei, i carri armati e le armi americane. È vero, gli USA hanno salvato 130mila sudvietnamiti, me compreso. È per questo che il protagonista del mio romanzo Il simpatizzante afferma che gli aiuti americani non sarebbero stati necessari se gli USA non avessero mai invaso il paese. Immagino che tali sentimenti siano condivisi dagli alleati afgani dell’America.
Insomma, non è certo una novità che gli USA abbiano deciso di sospendere gli aiuti militari all’Ucraina, come non lo è il loro voltafaccia nei confronti di un alleato. L’unica differenza è che un tempo gli Stati Uniti voltavano la spalle solo ai non bianchi. Quindi lo choc degli europei per aver subito questo trattamento è del tutto comprensibile. D’altra parte, la storia ci dice che, durante l’epoca coloniale e per tutto il suo lungo strascico, anche certi alleati europei degli Usa hanno usato e abusato di popoli non bianchi e li hanno traditi.
Il consenso europeo e americano circa la legittimità della dominazione coloniale e imperiale ha mascherato le spaventose violenze perpetrate contro popoli non bianchi colonizzati, i quali hanno giustamente considerato il trattamento loro riservato come un tradimento degli ideali dell’illuminismo europeo in fatto di libertà, diritti e uguaglianza, che tanti colonizzati avevano appreso a scuola. Lo choc provocato da Trump si spiega con la sua ostentazione di indifferenza verso ogni giustificazione, così come verso quello che Biden definiva l’ordine internazionale basato sulle regole. Ai suoi occhi, quell’ordine è pura ipocrisia, e lo dimostra il fatto che il sostegno accordato dagli USA a Israele non segue altre regole che quelle stabilite da Washington. Del resto, Trump ha abbondantemente chiarito che le uniche regole e l’unica legge sono quelle decise da lui.
Così facendo, ha espresso l’essenza del trattamento che europei e americani si sono sempre risparmiati gli uni con gli altri, per riservarlo esclusivamente ai popoli colonizzati. Insomma gli europei hanno ogni diritto di sentirsi traditi, vedendosi messi di fronte a un possibile nuovo ordine mondiale dettato dall’uomo forte nonché signore della guerra. Tuttavia farebbero bene a non dimenticare che loro stessi hanno già imposto quell’ordine a tanti altri, per tutta la durata della storia coloniale di conquista, estrazione e sfruttamento che ha permesso all’Europa di arricchirsi.
Trump e ciò che rappresenta sono senz’altro fattori distruttivi, ma la risposta giusta non è limitarsi a ripetere le ipocrisie del passato e del presente. Dovremmo invece usare tutti insieme la nostra creatività per immaginare società più giuste, che non consentano a personaggi del genere di assoggettare il mondo alla logica brutale della prepotenza e del capitalismo sfrenato.
Traduzione di Marina Astrologo