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Uno dei principali buchi neri della sinistra, nel Ventunesimo secolo è quello della ricostruzione di un reticolo di relazioni e solidarietà sociali sul territorio. Ci riferiamo a quella straordinaria intelaiatura gramsciana che, nel secolo scorso, ha permesso principalmente al Pci di integrarsi nella società italiana, seguendo le traiettorie più evolute e competitive, diventando interlocutore, tutore e partner di spezzoni rilevanti dell’articolazione socioeconomica. Pensiamo a quella rete in fieri che è stato il movimento cooperativo, che ha promosso e accompagnato l’emancipazione di intere regioni, prevalentemente a cavallo dell’Appenino tosco-emiliano, ma con forti propaggini in tutto il nord del Paese.
La Lega delle cooperative non solo è stato uno spazio intermedio fra politica e mercato, ma ha permesso a decine di migliaia di figure professionali di affermarsi, creando attività del tutto inedite e prima sconosciute. Possiamo dire che quel mondo – in cui convergevano le cooperative di consumo e produzione, i luoghi di socializzazione e assistenza, i centri di promozione culturale e territoriale – fu la vera Silicon Valley italiana, che diede, negli anni Sessanta, un contributo indiscutibile al miracolo economico, costringendo anche i picchi più robusti del capitalismo industriale e finanziario a fare i conti con una diversa vocazione ed etica del mercato.
Non meno significative furono le associazioni economiche, le aggregazioni dei commercianti, con la Confesercenti che tallonava la Confcommercio di matrice più democristiana, o la Cna, che inglobava gli artigiani, o ancora la Confagricoltori che sfidava, proprio sul terreno delle cooperative e dei consorzi agrari, la bonomiana Coldiretti. Questi network – diremmo oggi – rappresentarono radici robuste che davano alla sinistra non solo potere di rappresentanza, che andava al di la delle fabbriche e del movimento del lavoro, ma anche orecchie sensibili per captare le trasformazioni sociali.
Negli anni Novanta si scompone questo mosaico e si allentano, per poi inaridirsi, tutti i legami dialettici fra la società civile e la sinistra. Sarebbe da approfondire come proprio contemporaneamente allo sfaldamento delle infrastrutture industriali, con la perdita di centralità del lavoro manifatturiero, anche l’articolazione intermedia delle figure professionali e produttive del primario – la terra – e del terziario, il sistema dei servizi, perda spessore politico, e soprattutto smarrisca ogni ambizione cooperativistica.
A quel punto, la sinistra si trova senza orecchie, senza capacità di intercettare e decifrare i segnali della metamorfosi che stava trasformando una società di massa, per quanto identificata nelle diverse realtà socio-territoriali, in un formicaio individualista, in cui non si trovava più posto per una testimonianza pubblica dell’economia. Tutti i frenetici e imitativi progetti di ricostruire una forza politica di sinistra moderna, sensibile proprio alle dinamiche del mercato, si infrangono sulla incapacità di parlare e organizzare le nuove realtà che emergono dalla frantumazione delle grandi piattaforme di massa. Paradossalmente, un partito come il Pci – per quanto criticamente, pur sempre ancorato al blocco sovietico – caratterizzato da un’iconografia operaia e collettivista, fu molto più capace di dialogare con le modernizzanti forme di economia competitiva di quanto lo furono tutte le versioni successive di quel partito, che esibivano una totale sintonia con il mondo anglosassone e una chiara omologazione alle dinamiche puramente mercantili.
La contemporaneità di una disarticolazione del mondo organico degli anni Sessanta, nel quale partito e associazionismo avevano una forte sintonia, con il diffondersi di linguaggi e comportamenti reticolari, segnati dalle volontà e capacità di attivare costantemente legami “punto-a-punto”, da individuo a individuo, digitalmente, è una delle cause di quella débâcle. L’assoluta miopia e incapacità nel cogliere il salto antropologico, e di analizzare questa molecolare mutazione del tessuto relazionale ed economico, ha reso la sinistra inadeguata ai nuovi tempi. Proprio la deriva della Lega Coop – diventata oggi un ordinario e omologato centro di interessi e attività finanziarie, verticalmente organizzato, privo di qualsiasi attitudine alla partecipazione dei suoi soci – testimonia di un processo di contaminazione passiva di quel mondo.
Oggi ci troviamo in un nuovo tornante, con la diffusione di capacità e potenze di calcolo decentrate all’individuo, che rendono apparentemente più accessibile la competizione economica e la partecipazione sociale. L’irruzione di dispositivi come ChatGPT – che in pochi mesi è già evoluta in ulteriori standard sempre più versatili e potenti, in grado di supportare, se non proprio sostituire, attività rilevanti e discrezionali delle prestazioni professionali e intellettuali – pone un nuovo tema per una possibile nuova declinazione di una strategia di sinistra: come essere partner e tutor di un processo in cui l’uso gratuito e istintivo di queste soluzioni comporta una subalternità culturale e linguistica, che limita anche la competitività economica e territoriale?
Ci troviamo dinanzi una realtà per cui anche aziende di piccolissime dimensioni, botteghe artigiane o singoli professionisti, possono, ottimizzando questi meccanismi tecnologici, realizzare attività di grande impatto sociale e imprenditoriale. Una delle sorprendenti multinazionali tascabili, che rendono esclusivo il tessuto produttivo veneto, la Solid World, ha sviluppato un progetto di stampante a 3d per riprodurre organi umani o animali. Una suggestione distopica che inevitabilmente rinvia alle mille suggestioni del mito di Frankenstein, e che invece, nelle parole del suo fondatore, l’ingegnere Roberto Rizzo, assume la pacata ed elegante cadenza di un’ingegnosa trovata artigiana.
L’obiettivo non è quello di ricreare esseri artificiali, quanto di permettere, da una parte, una pratica più sicura della sostituzione di organi o parti del corpo umano, e, dall’altra, per la riproduzione animale, di sostituirsi ai costosi e inquinanti allevamenti, con produzioni di tessuti animali reali derivati da geni che vengono poi renderizzati. Si tratta di combinare, appunto ingegnosamente, soluzioni tipiche del disegno industriale automatizzato e della riproduzione tridimensionale del 3d, che ormai caratterizzano una gamma vasta di artigiani, con le capacità bio-tecnologiche di un gruppo di ricercatori universitari, che hanno selezionato le procedure per ricavare da singole cellule intere parti di un essere vivente. Come spiega il suo promotore, l’ambizione è quella di azzerare il rischio di rigetto per i trapianti umani, e di sostituire la carne per alimentazioni con tessuti che conservano tutte le proprietà naturali. Una tale innovazione è resa possibile dal fatto che un nucleo professionale ristretto, formato da un singolo artigiano dell’ingegneria, ha potuto avvalersi di informazioni e sistemi di calcolo in una chiave industriale impensabile fino a ieri, grazie appunto all’uso creativo di dispositivi di intelligenza artificiale e cloud computing disponibili sul mercato.
Ma proprio questo esempio ci spinge a una riflessione di sistema, in cui la politica deve giocare la sua parte. Nella guerra fra quei giganti dell’intelligenza artificiale, che stanno invadendo la scena con le loro mirabolanti soluzioni, quale ruolo possono giocare le comunità socio-economiche locali? E i territori? O ancora meglio: i nuovi agenti intelligenti che aumentano la capacità e l’intraprendenza di un professionista o di una bottega possono essere governati e adattati dalla singola figura artigiana, o invece siamo destinati a metterci in fila come a un distributore di benzina? Sono i quesiti che, ormai lungo tutto il crinale dell’innovazione, caratterizzano l’atteggiamento e la problematicità del mondo delle piccole e medie dimensioni produttive, che rimangono strette fra l’ambizione di innovazione e il timore di sostituzione. Si costruisce qui un nuovo patto sociale – e una nuova rappresentanza di questi mondi oggi così distanti dalla sinistra. Siamo dinanzi a un vero sovvertimento sociale che non ha nulla di tecnico. Più in generale, come sostiene Tim Berners-Lee, il padre del Web, “Internet è innanzitutto un’innovazione sociale prima che tecnica”. Bisogna comprendere la sottile relazione che congiunge i bisogni, o le pretese, dei cittadini con le tecnologie che li veicolano. Sono i primi che danno forma alle seconde.
Le forze della sinistra – figlie di un meticoloso materialismo scientifico che nei decenni precedenti ha permesso loro di leggere, con grande efficacia, la domanda sociale – si trovano del tutto mute, invece, dinanzi a questa rivoluzione. Oggi si trasforma il linguaggio della gente e cambia il modo per decifrarlo. Come diceva Sherlock Holmes, alla fine del Diciannovesimo secolo, “l’uomo è un enigma indecifrabile, ma mettilo in una massa e avrai la certezza matematica di comprenderne i comportamenti”. Per tutto il Novecento le masse sono state i motori dell’economia, e dunque della politica: la grande industria ne influenzava gusti e scelte, unificando le identità, gli artigiani ne educavano le élite, valorizzando la loro ambizione alla differenza. Oggi sembra prevalere proprio questa seconda accortezza: rispetto alla dimensione di massa dell’industria, è l’individualizzazione che guida le relazioni sociali. Si torna così all’origine di quella scissione fra intellettuali, intesi come cesellatori del pensiero, e gli artigiani, visti come eleganti manovali, nel senso dell’abile uso delle mani.
Come ricorda Richard Sennett, nel suo L’uomo artigiano (Feltrinelli, 2008), la radice di poiein – il verbo greco da cui viene il termine “poeta” – è proprio “fare”, “creare dal nulla quel che è”, con le mani. Oggi matrice di un’attività manifatturiera colta torna a essere un pensiero, una visione del mondo, una capacità di decifrarlo e rappresentarlo, di cui l’intelligenza artificiale è strumento ma anche linguaggio e regola. Si ritorna sul terreno dell’ingegneria politica, sul quale i padri della sinistra costruirono una strategia vincente. La dimostrazione di quanto ciò sia vero è il processo di miniaturizzazione dei dispositivi digitali. Pensiamo prima al personal computer e poi allo smartphone, che hanno permesso a ognuno di noi di potersi muovere, singolarmente e agevolmente, nella ragnatela di opportunità e occasioni che la rete propone, diventando di fatto artigiani della nostra immagine, reputazione e attività. Pensare una qualsiasi attività artigiana senza quello straordinario supporto di memoria, connessione e comunicazione che è il telefonino, oggi cosa sarebbe? Quali speranze si avrebbero di sintonizzarsi con una clientela sempre più mobile nello spazio e nella volubilità dei gusti? Possiamo dire che esista uno stile, una competenza, un sapere artigiano, nel giostrare connessioni digitali.
L’intelligenza artificiale, nelle diverse versioni – di cui la più popolare è ChatGPT –, è un’ulteriore accelerazione di questa tendenza individualistica. Lo standard ChatGPT, giunto alla sua quarta release, di proprietà di Microsoft, rende accessibile a ogni persona, di qualsiasi formazione o attività, una potenza di calcolo che, solo fino a qualche mese fa, era assoluta prerogativa di grandi apparati pubblici o grandi gruppi privati. Improvvisamente, ciascuno si trova a integrare, ad aumentare – come si dice oggi – la sua forza operativa, grazie a questa smisurata conoscenza. Lo aveva previsto quel grande artigiano dell’innovazione preziosa che era Adriano Olivetti che, nel lontano novembre 1959, proprio anticipando la Programma 101, il primo vero personal computer che stava progettando in quei mesi, così descriveva il futuro informatico del lavoro degli artigiani italiani: “(…) sottratto alla più faticosa routine, dotato di strumenti di previsioni, di elaborazione e di ordinamento, prima inimmaginabili, il responsabile di qualsiasi attività tecnica, produttiva, scientifica, può ora proporsi nuove, amplissime prospettive”. Un messaggio politico prima che imprenditoriale, dal cuore dell’Italia che correva nel triangolo industriale. Una straordinaria visione profetica, tipica però di chi, immerso nell’informatica, aveva modo di comprenderne gli effetti sociali e gli obiettivi politici: ricostruire un mondo senza produzione materiale. Oggi questa magia di disporre di “strumenti di previsioni, di elaborazione e di ordinamento”, come scandiva Olivetti, si chiama big data, il cosiddetto petrolio del nuovo millennio, che permette di prevedere, elaborare e ordinare le nostre attività. La presenza dei dati sta mutando le condizioni di competizione sul mercato: vince chi li riconosce, li raccoglie e li elabora.
Come spiega Lev Manovich, nel saggio Culture Analytics (Cortina editore, 2023), “la differenza del nostro tempo è l’interattività, che porta ogni individuo a manifestare la propria natura, i propri desideri, le proprie necessità rendendo calcolabile la relazione sociale con lui”. Questa risorsa diventa la base dell’intelligenza artificiale, che si realizza proprio nella calcolabilità di questi infiniti serbatoi di dati che profilano ognuno di noi. Come possiamo pensare a un partito, a un sindacato, a una città, a una comunità, che non organizzi e analizzi questo flusso ininterrotto di dati? ChatGPT esiste, possiamo dire, perché esiste un mondo parallelo dove confluiscono tutte le informazioni che la nostra vita digitale genera, e che vengono elaborate e riconosciute da possenti algoritmi.
Ma possiamo anche convenire, di conseguenza, che ogni singolo individuo, tramite un uso consapevole di queste funzioni intelligenti, sia in grado di mappare e riconoscere il suo microcosmo: i suoi fornitori, i suoi clienti, i suoi collaboratori, i suoi interlocutori. L’intuizione artigiana sui gusti e sulle tendenze diventa una pratica professionale irrobustita e documentata dai big data. La disponibilità di un agente artificiale che, rispondendo alle nostre domande, come accade a ChatGPT di Microsoft o a Bard di Google, certamente supporta e orienta l’evoluzione degli individui, delle piccole e medie aziende, dei cespugli e delle professioni, comporta comunque rischi di omologazione a comportamenti e procedure insite nel modello tecnologico, mettendo la propria dotazione di dati, il patrimonio di informazioni, orchestrato come nodo di una rete commerciale o professionale, alla mercè della piattaforma che ci ospita.
In questo dualismo fra opportunità e minaccia, deve crescere una proposta politica che raccolga e reindirizzi la spinta vitale che l’anima: l’intraprendenza di individui che, collaborando, fanno massa critica. Una nuova idea di cooperativa al tempo della rete, di cui un partito deve essere impresario e architetto. Oggi ci troviamo in una situazione in cui bisogna tornare a congiungere pensiero e produzione, progetto e servizio, usando quello straordinario insegnamento dell’artigianato italiano che trasforma la bellezza dei prodotti. Una strategia che richiede una politica industriale e culturale, che miri a rimodellare i sistemi di intelligenza artificiale, rendendoli affini alla propria sensibilità e ai propri interessi. Una strategia che non ha bisogno di specializzate abilità informatiche. Infatti, proprio le capacità di auto-programmazione che hanno sviluppato i sistemi come ChatGPT, che agiscono su indicazioni espresse in linguaggio naturale, li porta a supplire le funzioni direttamente informatiche e a trasferire il valore aggiunto della programmazione alla committenza, all’azione dell’autore che fissa i valori etici, le modalità relazionali, lo stile narrativo a cui il meccanismo deve attenersi. Oggi la politica prevale sulla tecnica.
Ovviamente una politica che voglia mettersi in gioco ripensando primati, gerarchie, organizzazione. Esplode qui la cultura della domanda rispetto a quella tradizionale della risposta: non è più la corsa a formulare la risposta più efficace ai singoli quesiti a farci vincere, com’è stato fino a oggi, quanto la capacità di porre le domande adeguate, prescrittive, discriminanti, che determina la nuova valorizzazione delle singole professioni o mestieri. Ma le opzioni sono ancora più radicali: come costruire un partito della domanda e non preservare quello della risposta?
La Fondazione Mozilla – uno dei principali e più prestigiosi gruppi, che ha sempre lavorato sulla valorizzazione dell’open source rispetto ai software proprietari – lancia un progetto per riprogrammare i sistemi intelligenti in rete, mediante forme sussidiarie e cooperative. Una vera mobilitazione che dovrebbe diventare un manifesto a sinistra. Si tratta di supplire ai costi ingenti dell’addestramento privato degli agenti intelligenti con modalità associative, che permettano una maggiore pertinenza e sensibilità del dispositivo sulle particolari esigenze linguistiche o culturali, o di gusto e sensibilità, di una certa comunità o territorio.
L’intelligenza artificiale, così come la ricerca sanitaria o biologica, si propone come una grande strategia corale, in cui, progressivamente, i singoli operatori possono darle forma e carattere senza dover subire vincoli. È una sfida tutta da giocare sul terreno della formazione e della prototipazione dei linguaggi e delle relazioni. Esattamente l’istinto primario di chi ha sempre trasformato l’esigenza specifica del singolo utente o cittadino in una soluzione complessiva e generale, come appunto la politica di sinistra.