De símbolo de estatus a señal para ligar: la curiosa historia de la piña
6 Ottobre 2024“L’Arte Povera c’est moi”
6 Ottobre 2024
L’editore e gallerista Emilio Mazzoli ha raccolto una selezione di versi delle canzoni di Vasco Rossi, poi ha radunato alcune sue riflessioni, infine ha chiesto a Paul Vangelisti di tradurre tutto in inglese. Il risultato è un’opera (d’arte) che il rocker presenta a «la Lettura», in una conversazione che è proprio questo: un libro (d’arte) aperto
Vincenzo Trione
In treno, da Milano verso Bologna. Prima di partire, ho tirato fuori dalla libreria Un weekend postmoderno (Bompiani, 1990). Un libro che ho molto amato prima di varcare la linea d’ombra della maturità. Un divagante romanzo critico, debitore di rimandi a Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino. Pier Vittorio Tondelli vi aveva radunato miti e luoghi di un’intera generazione: i ventenni dei primi anni Ottanta. Un disomogeneo archivio personale attraversato da affetti e da curiosità. Un brogliaccio di sottotesti, di citazioni e di reportage, simili ai sopralluoghi necessari per la preparazione di un film. Ma anche un irrequieto on the road italiano. Dall’Emilia all’Emilia, andata e ritorno. Centrale, in questa cartografia, Modena, frequentata da bande in bilico tra città e provincia; sorrette dal bisogno di vivere «il mito e il sogno all’interno di un’esistenza un po’ grigia e nebbiosa, ma pungolata continuamente dalla modernità e dalla ricerca dell’evasione». Tribù guidate dalla voglia di stare insieme, di «fare casino», di raggrupparsi, di porsi in antitesi con le liturgie della «società adulta». Una gioventù selvaggia, lirica e sentimentale, con «una grande voglia di provare i propri limiti», tentando di riportare tante sfrenate illusioni nella quotidianità. In questo contesto si forma Vasco Rossi, al quale, nel 1988, su «L’Espresso», Tondelli dedicò un affettuoso ritratto, rievocando gli esordi da dj a Puntoradio, tra le più originali esperienze di radio libere dell’epoca. Sincerità. Acume nell’«interpretare la grande anima rock della provincia italiana». Capacità nell’offrire non tanto un messaggio musicale quanto «un atteggiamento, una storia vissuta, una mitologia». Distanza da ogni culto della «normalizzazione», del «carrierismo», del «perbenismo». Determinazione nel non farsi «irreggimentare». Difesa di una sana «diversità», espressa da una «faccia da contadino», da un’«andatura da montanaro», da una «voce sgranata da fumatore», da uno «sguardo sempre un po’ perso». Sono, queste, scriveva Tondelli, le principali qualità di Vasco, creatore di uno stile «duro e chiassoso, forse non meno trasgressivo, certo più ingenuo e meno mediato», in grado di incarnare «l’anima più vera dell’artista rock, genio e sregolatezza, atteggiamenti provocatori e autolesionisti, generosità e talento». Un’anima bella e perduta.
Mentre rileggo questo omaggio letterario — che contribuì a sdoganare Vasco nel mondo della cultura «alta» — arrivo in una Bologna già autunnale.
L’occasione per questo incontro è eccentrica. La pubblicazione del primo libro d’arte di Vasco Rossi. Si intitola Vivere/Living. Ed è molto distante dalle scorribande proposte da tanti cantanti che, per intrattenersi, per distrarsi, per sfuggire alla noia o per sottrarsi alle imposizioni dell’industria discografica, si divertono con la pittura. Siamo dinanzi a un complesso montaggio di frammenti diversi. Dai brani di Vasco — un basso continuo per tante generazioni — sono state estratte alcune strofe dotate di autonomia letteraria, suscitando un effetto straniante: quasi per incanto, frasi che hai cantato centinaia di volte ti sembrano inedite e acquistano un misterioso lirismo popolare, come se fossero state scritte da un poeta contemporaneo, lontano da ogni ermetismo, con una vocazione alla comunicazione efficace. E, poi: emersi dal fondo dei taccuini, forse backstage di tante canzoni, appunti quotidiani, aforismi privati e meditazioni intime che, nell’accostarsi, delineano i contorni di una filosofia immanente elaborata, per barlumi, da un involontario nouvel philosophe.
Questi brandelli sono stati tradotti in inglese dal poeta americano della Beat Generation Paul Vangelisti, che ha adottato un approccio quasi mimetico, in modo da aderire alle parole di Vasco. Infine, alcuni artisti — Rosanna Mezzanotte, Carlo Benvenuti, Marcello Jori, Gianluca Simoni — hanno dato un volto pittorico a questi versi con un misto di fedeltà e di libertà. Suddivisi in capitoli tematici — «Rabbia, sogni realtà», «Origini», «Rockstar», «Le donne (e l’amore)», «Vivere», «Contemporaneo» —, con la cura di Arturo Bertusi, questi materiali sono stati raccolti in un volume, pubblicato in edizione limitata (500+50 esemplari), da Emilio Mazzoli, leggendario gallerista modenese, scopritore di Basquiat e sostenitore della Transavanguardia, appassionato bibliofilo ed editore, in collaborazione con i poeti Nanni Cagnone e, appunto, Paul Vangelisti, di una ricercata collana di libri di poesia illustrati da artisti.
È nato così un progetto editoriale piuttosto unico, che ha qualcosa delle precedenti incursioni editoriali di Vasco: il diarismo di Diario di bordo (Mondadori, 1996) e l’urgenza testimoniale di La versione di Vasco (Chiarelettere, 2011). Un collage di pensieri delicati e inquieti, ingenui e introspettivi, ma sempre sinceri. Ne affiora l’autoritratto di un cantautore che, oscillando tra maledettismo e crepuscolarismo, come ha sottolineato Edmondo Berselli (negli articoli antologizzati in Su Vasco, Franco Angeli, 2019), è anche rocker, poeta, performer, pensatore, rabdomante dei sentimenti, specchio unico nell’intercettare sentimenti e stati d’animo collettivi, senza distinzioni di generazioni e di classi, in uno straordinario processo di immedesimazione. Quasi la cronaca di un transito: dagli slanci legati all’estetica pop-rock di …Ma cosa vuoi che sia una canzone… alla compostezza saggia della maturità di Siamo qui.
Dunque, Bologna. Un pomeriggio d’inizio ottobre, sotto un cielo basso e grigio. In taxi, percorro lunghi viali. Solo gli stop and go dei semafori suggeriscono l’uscita dal centro verso oriente, tra il rallentare e l’accelerare del traffico. Imbocco il tratto iniziale della Via Emilia. Clima da periferia senz’anima. Un set popolare, ordinario. Intorno, edifici anonimi, ristoranti e bar modesti. Poi, una palazzina primonovecentesca. Qui si trova il quartier generale del Komandante. Un grande locale multiuso, che gli fa da ufficio, con una sala da registrazione. In un angolo, un flipper che «fotografa» i sette concerti a San Siro della scorsa estate. Alle pareti, poster, dischi d’oro, qualche quadro-fumetto. Attendo per qualche minuto. Poi, il Blasco arriva, accompagnato dai suoi collaboratori (quasi una famiglia). Vestito di nero, con l’inconfondibile cappello con visiera. In lui colgo un’iniziale cautela — forse una certa diffidenza — nei miei confronti. Sembra chiedersi: «Che ci faccio qui? Che ci fa questo qui?». Ha occhi azzurri acuti, luminosi, vivaci. Una naturale aura lo avvolge. Poi, iniziamo a parlare. E subito si crea un’atmosfera affabile. Di fronte a me non è un monumento incline a celebrarsi, ma un uomo riflessivo, misurato nei gesti, sorvegliato nei ragionamenti e consapevole di sé stesso, che non smette di interrogarsi sulle sue scelte e sul suo mestiere, portato al dialogo con l’altro, per soddisfare un bisogno mai appagato di conoscere e di capire. Un artista che di sé dice: «Io non sono un maestro. Non voglio essere un maestro. Non ho mai pensato di essere un maestro. Non faccio il mestiere del maestro».
Vorrei partire da Tondelli…
«Era un uomo libero, aperto, attento, curioso. Tra i pochi che mi hanno capito fino in fondo. Negli anni Ottanta, quanti equivoci sui miei brani. Credo che Vita spericolata sia stata tra le canzoni più fraintese della musica italiana. Parlavo della vita che, io come tanti della mia generazione, avremmo voluto».
Nel 1986 Tondelli scriveva: «Non si può nemmeno lontanamente capire il fenomeno Vasco Rossi senza tenere presente questa realtà emiliana». «Vivere» è un progetto profondamente emiliano, anzi intimamente modenese. Intorno a te, due poeti (Nanni Cagnone e Paul Vangelisti), un art director (Arturo Bertusi) e alcuni artisti legati a questa terra. Regista di questa officina è un grande gallerista, Emilio Mazzoli. Come è stato l’incontro con Mazzoli? Due figure lontane che, all’improvviso, hanno scoperto assonanze, punti di contatto. Compagni di strada tardivi.
«Il vero artefice di questa impresa è Mazzoli. Ci siamo conosciuti pochi anni fa. Ho colto subito una straordinaria affinità. Ha afferrato il senso delle mie parole, il mio carattere, il mio bisogno di solitudine. Ci somigliamo. Abbiamo idee vicine su tanti argomenti. Siamo modenesi e, insieme, internazionali, figli di una zona di mezzo, che ha qualcosa della razionalità emiliana e qualcosa della passionalità romagnola. Ma, soprattutto, siamo anarchici».
Dietro questo libro difficile da catalogare sembra di risentire il gusto per le contaminazioni care alle neoavanguardie, da te incrociate negli anni Settanta a Bologna, quando ti sei dedicato al teatro sperimentale. Quanto hanno inciso su di te quei climi di giovanile e dissennata sperimentazione?
«Ah, la mia Bologna degli anni Settanta! Ero iscritto all’università. E frequentavo ragazzi con i quali condividevo il sogno di cambiare non il mondo ma noi stessi. Provavo una certa insofferenza per gli estremismi di Lotta continua e di Potere operaio: gruppi animati da tanti giovani borghesi. Ero vicino agli Indiani metropolitani, una vera avanguardia. In quel periodo ho incrociato i libri sulla rivoluzione di Bakunin e ho scoperto il teatro sperimentale. Che mi ha spinto a leggere Ionesco e Beckett, a conoscere il Living Theater. E a uscire dalla mia timidezza. Intanto, scrivevo canzoni per divertirmi. Sono cresciuto tra i grandi cantautori italiani (Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Lucio Dalla, Francesco Guccini, Edoardo Bennato) e il progressive rock (Pink Floyd e Genesis). Sognavo di trovare una via italiana al rock».
«Vivere/Living». Un libro di poesie? Un brogliaccio di annotazioni sulla vita e sul mondo?
«Innanzitutto, è un atto di libertà. Ed è un riconoscimento, come una laurea ad honorem, un Oscar o come quando, agli inizi degli anni Ottanta, De Gregori si è fermato in una strada di Roma per salutarmi. Con Vivere finalmente entro in un’importante collana di poesia».
O, forse, è un autoritratto non confessato?
«Sì, è un autoritratto. Ogni cosa che faccio e che scrivo è questo: un autoritratto. Un modo per dire: questo sono io».
«A vent’anni una ragazza mi regalò un libro di Osho. Lessi le prime righe: quando sei nervoso pensa a come respiravi quando eri nervoso. L’ho preso e l’ho buttato via. Poi, mi è capitato di leggerlo in un altro momento e l’ho apprezzato molto», hai detto. Qual è il tuo rapporto con i libri? Ad esempio, a «Ti prendo e ti porto via» di Niccolò Ammaniti hai dedicato una canzone.
«I libri sono i miei migliori amici. Quando ne leggo uno, è come se fossi in compagnia di chi lo ha scritto. Ed è un modo per evitare di stare tra la gente. E andare altrove».
Quali autori ti hanno maggiormente influenzato?
«Da ragazzo ho frequentato ragioneria. Ma non ho mai provato interesse per i calcoli, i contratti, gli assegni. Pensa che paradosso: io che vado a ragioneria. Per istinto e per necessità, in quegli anni giovanili, ho iniziato a leggere libri che non si studiavano a scuola. I classici di filosofia, innanzitutto. Socrate, Platone. Mi sono accostato a quei testi in maniera antiaccademica, confusa, disordinata. Saltavo da un pensatore a un altro, senza disciplina. Ma la mia rivelazione più grande è stato Nietzsche. Mi colpivano i titoli dei suoi libri: Umano, troppo umano è tra i più belli che siano mai stati immaginati. Mi affascinavano i suoi aforismi. Vita spericolata è anche un omaggio a Nietzsche. Negli anni, ho continuato a leggere i filosofi. Quando vivevo nello Stupido Hotel, passavo le giornate annotando Aut-Aut di Kierkegaard, che mi ha insegnato il valore dell’esperienza. Poi, ho iniziato il viaggio attraverso la Critica della ragion pura di Kant. E l’ho trovato bello e chiaro. Ho più difficoltà a misurarmi con coloro che interpretano i filosofi».
Che cosa stai leggendo, in questo periodo? Hai parlato della tua fascinazione per i saggi mistico-spiritualistici e per quelli del filosofo pop Byung-Chul Han, interprete di un tempo che crea connessioni e non relazioni.
«Sì, certo Byung-Chul Han. Ma da un anno sto studiando i classici del buddhismo. Mi interessano anche alcuni studi sulla natura. Mi hanno appassionato i volumi di Federico Faggin sulla coscienza e sull’invisibile. Da qualche giorno ho iniziato Il padrone e il suo emissario di Iain McGilchrist, sul funzionamento del cervello».
Anche se per vie segrete, i libri che leggi entrano nella tua scrittura?
«Sì, spesso. Non come citazioni. Le mie letture letterarie e filosofiche entrano in quello che scrivo in maniera inattesa, senza calcolo. Al di là di ogni mia intenzione».
A differenza di tanti altri cantanti, sedotti dalla volontà di spostarsi sempre verso altri linguaggi, in te è evidente il bisogno di non allontanarsi mai dalla parola scritta e cantata.
«Ho sempre imbarazzo a parlare di quel che fanno i miei colleghi. Mi considero uno s-collega, che ha difficoltà a stare in gruppo».
Alberto Savinio ha fatto un elogio degli «incongregabili».
«Mi piace questa categoria: la userò (sorride). A differenza di chi aderisce alle parrocchie, mi sono sempre sottratto alle tante sollecitazioni di quelli che mi chiedevano di fare altro: mi è stato anche proposto di curare la regia di un film ispirato a Vita spericolata. Ma io scrivo canzoni. Io sono questo. E so fare questo. E già è tanto se, nella vita, sai fare una cosa bene. Ostinatamente, ho cercato di rimanere duro e puro».
Che effetto ti hanno fatto i versi estratti dalle tue canzoni e trasformati in poesie?
«Quello che mi appartiene è sempre e solo la forma-canzone. Ogni volta che ne scrivo una, cerco di non ripetermi. Mi piace sperimentare. Ricordo la parte iniziale di Toffee, in cui volevo evocare una scena da film, per alludere all’assenza di una donna. Ma le canzoni sono fatte per essere cantate. Ora mi ritrovo tra le mani questo volume. Mi fa uno strano effetto leggere le mie parole senza musica». (Apre il libro e inizia a recitare i versi di Vivere, con un misto di sorpresa e di allegria).
E le traduzioni in inglese di Vangelista? Che impressione ti ha fatto leggere una versione dei tuoi testi in un’altra lingua?
«Trascorro diversi mesi dell’anno a Los Angeles, ma non parlo l’inglese. Sono troppo pigro per impararlo. Ne conosco qualche espressione. Ma è stata una gioia vedere il risultato delle versioni di Vangelista. Ho appena intuito qualcosa».
Vangelista è stato tra gli animatori della Beat Generation. Quanto ha inciso quella stagione sul tuo linguaggio?
«Tanto. L’urlo di Allen Ginsberg mi ha cambiato. Devo molto all’incipit di quel poema, che avrebbero potuto cantare i Rolling Stones: “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia”».
Diversamente dai protagonisti della Beat Generation, nelle tue poesie e nei tuoi aforismi, ricerchi uno stile semplice ma non ingenuo, diretto ma non spontaneo, capace di far coincidere sensazioni, visioni, pensiero e prosa, intesi come piani che devono combinarsi in un misterioso equilibrio. In un saggio di qualche anno fa, Raffaele La Capria ha parlato di stile dell’anatra. Senza sforzo apparente, l’anatra fila via tranquilla e impassibile sulla corrente del fiume, «mentre sott’acqua le zampette palmate tumultuosamente e faticosamente si agitano: ma non si vedono». Anche il tuo è lo stile dell’anatra: immediato, ma frutto di una lunga ricerca. Una pagina di «Vivere/Living», quasi un manifesto di poetica: «Cerco sempre, nelle mie canzoni, di togliere più che di aggiungere. Di esprimere concetti con il minor numero di parole possibili. Di attuare la sintesi! (…) Il mio sforzo è sempre quello di riconoscere la frase più adatta (spontanea, immediata e istintiva) a descrivere quello stato d’animo». Che rapporto hai con le parole, soprattutto in un tempo segnato dall’ipertrofia comunicativa?
«Mi piace l’idea dello stile dell’anatra. Descrive bene quello che mi sta a cuore. Ho impiegato anni a imparare a scrivere canzoni. Sai, non è facile. Serve mestiere. A lungo ho cercato il mio stile: forse, l’ho trovato con Jenny è pazza, che dice molto di me. Mentre i cantautori raccontavano ogni passaggio (pensa a Guccini), io ho eliminato la narrazione, lasciando solo l’essenziale. Negli anni Ottanta, il pubblico non aveva più tempo per ascoltare lunghe descrizioni in musica: andava veloce e ricercava immagini efficaci. C’è un libro che mi ha insegnato l’arte della sintesi. È Meno di zero di Bret Easton Ellis. Ne ho parlato a lungo con la mia amica Nanda Pivano. Una grande emozione i dialoghi con Nanda, la persona che aveva tradotto i miti della mia gioventù: Kerouac, Hemingway».
All’origine di ogni tuo verso c’è anche la ricerca dell’autenticità. Scrivi: «Indago il mio inferno, ci passo in mezzo». E, poi: «Ho fatto un patto sai/ Con le mie emozioni/ Le lascio vivere e loro non mi fanno fuori». Il tuo fine: dissolvere la frontiera che divide la vita dall’arte. «La vita non è una commedia che puoi provare prima. La devi vivere improvvisando», scrivi in «Vivere/Living».
«Mi attengo sempre allo stesso metodo. Preferisco la notte. Ho bisogno di solitudine. Devo isolarmi dal mondo. Essere preso solo da me, senza richiami esterni. Qualche nota di chitarra mi ispira un’immagine. Senza la musica non riesco a scrivere: quando sono in pubblico, mi sento in imbarazzo senza sottofondi musicali. Parto dalla prima frase. Se mi convince, si apre un universo. Vado avanti. Può accadere che mi fermi solo perché sento di dover tornare indietro. Ma occorre non arrestare il flusso che sale dall’inconscio. È come passeggiare nel buio. La parte razionale di me serve solo per riportare sulla carta queste onde emozionali, per evitare che fuggano via. Vado avanti rapidamente, spesso senza ripensamenti, come è accaduto con Sally. E mi chiedo sempre: chissà da quanto tempo quella canzone era in me, chissà da dove è venuta fuori. È sempre un miracolo. Un mistero inspiegabile. Scrivere una canzone vuol dire questo: rinunciare alla zona razionale e logica di sé stessi, fare autoanalisi e interrogare le zone più segrete dell’io, per comunicare con il cuore delle persone».
Il tuo lavoro nasce in solitudine. Poi, in una seconda fase, diventa collettivo, nella creazione di un disco e nella realizzazione dei videoclip e dei concerti.
«Sì, la solitudine. Fino ai venticinque anni ho avuto un’esistenza normale. Dopo ho vissuto solo per scrivere. Progressivamente, ho sempre più rinunciato alle distrazioni. Ho eliminato tutto. Oggi non ho una vita sociale. Non incontro persone. E, quando le incrocio, non so mai cosa dire. La mia migliore compagna è la chitarra. Ogni giorno ringrazio il cielo e la chitarra! Ma so che, poi, un disco deve viaggiare. E, per farlo, ha bisogno di tante competenze».
«Vivere/Living» non è solo un tuo libro: è esito di quella che il filosofo tedesco Boris Groys ha definito «autorialità multipla». Vi si ritrovano, insieme, un cantautore, un gallerista, un poeta, un art director e alcuni artisti. Ecco: che rapporto hai con le arti visive? Ti capita di visitare musei e gallerie? Quali pittori ti interessano?
«In Italia, ho difficoltà ad andare nei musei e nelle gallerie. Verrei riconosciuto subito. Invece, quando sono a Los Angeles, ci vado spesso. Trovo geniale Banksy».
Tra i pittori con i quali hai collaborato c’è Marcello Jori, autore, nel 1995, della scenografia di «Rock sotto l’assedio».
«Conosco Marcello dagli anni Novanta. Quante occasioni, insieme. Un episodio divertente. Per Rock sotto l’assedio, Jori aveva disegnato una scenografia color viola. Quando vidi il progetto, rimasi interdetto. Sai, nel mondo dello spettacolo il viola è bandito. Ma io non sono scaramantico». (Sorride di nuovo).
È la prima volta che alcuni pittori danno un volto alle tue canzoni. Il tuo giudizio su queste riscritture?
«Mi hanno sorpreso e divertito. Guarda come è efficace questo quadro di Rosanna Mezzanotte, ispirato a Jenny è pazza, pieno di fiori di fuoco». (Sfoglia di nuovo Vivere/Living).
In fondo, anche un concerto è un esercizio di «autorialità multipla». Una sorta di opera d’arte totale irripetibile, dentro cui confluiscono linguaggi diversi (musica, poesia, architettura, performance, teatro). Annoti: «Quando scrivo gioco, quando faccio dischi lo faccio per scherzo, quando salgo sul palco faccio sul serio!».
«Scrivo per andare a cantare, per incontrare non il mio pubblico ma il mio popolo. In un concerto, le canzoni guadagnano una vita propria. È un momento di comunione e liberazione. Chi canta e chi ascolta, insieme, provano le stesse emozioni».
Quando intervieni nella scelta delle scenografie dei tuoi tour e nella costruzione dei videoclip?
«La creazione è affidata a un team di collaboratori. Che entrano nel mio lavoro: lo interpretano, lo fanno rivivere. Mentre per i concerti mi limito a giudicare le proposte, per i videoclip intervengo in modo più forte, a volta definendo i soggetti e individuando gli attori».
Infine, la filosofia. Le tue canzoni più recenti e tante pagine di «Vivere/Living» ci consegnano l’immagine di un artista che, senza mai inciampare nella retorica, forse memore di qualche suggestione nietzschiana, si interroga su alcuni concetti assoluti ricorrendo a un linguaggio piano. Questo arsenale di riflessioni è destinato a essere cantato da un pubblico pronto a urlare le tue parole. Ti riconosci nel ritratto del filosofo involontario? Un tuo aforisma: «È nella natura umana la convinzione di essere immortali: noi infatti non sperimentiamo mai la nostra morte, fino all’ultimo prima di morire saremo ancora vivi. E una volta morti nulla di noi resterà per capire che siamo morti. Quindi in realtà noi non moriremo mai».
«Mi riconosco nel ritratto del filosofo involontario. Sì, un po’ mi sento così. E mi fa piacere che tu lo abbia colto. La filosofia entra nei miei pezzi per osmosi, quasi contro la mia volontà. O al di là di essa».
Stai scrivendo in questo periodo? Un’altra pagina di «Vivere/Living»: «Ormai le cose che penso… Non sono più comunicabili con le parole… Ma solo con il silenzio».
«Scrivere è faticoso. Per farlo, occorre energia. E, per ora, non ne ho. Da materialista mi sto riscoprendo spiritualista, interessato soprattutto alla dimensione della coscienza. Ho capito che sono abitato da qualcosa di troppo grande da poter essere espresso, detto, colto. Sto arrivando alla convinzione che, per comunicare davvero, sia giusto affidarsi al potere del silenzio. La prossima volta che ci incontreremo potremo parlare senza dire una parola».
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