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L’elezione di Leone XIV – primo papa statunitense nella storia – giunge nel momento di massima tensione del cattolicesimo nordamericano, lacerato tra un progetto identitario-imperiale e la tradizione evangelica dei poveri. La polarizzazione politica minaccia di destabilizzare non solo la società statunitense ma anche la stessa chiesa cattolica, che rischia di andare verso quello che Massimo Faggioli ha definito “scisma liquido”: non una rottura formale ma due mondi che si ignorerebbero a vicenda Internazionale.
Una Chiesa divisa come la nazione
La crisi attraversa l’intera struttura ecclesiale americana, riproducendo al proprio interno le fratture che dilaniando il corpo politico della nazione. Il sistema politico a due partiti ha creato qualcosa come una Chiesa cattolica a due partiti. Questa è una polarizzazione che nasce negli Anni ’80 dopo la questione aborto e negli ultimi anni si è approfondita RSI. Non si tratta più di sfumature pastorali o di sensibilità diverse nella lettura del Vangelo, ma di una contrapposizione radicale che investe l’antropologia, l’ecclesiologia, la stessa comprensione di cosa significhi essere cristiani nel mondo contemporaneo.
I numeri elettorali del novembre 2024 certificano uno spostamento epocale nell’orientamento dell’elettorato cattolico. I cattolici di dieci Stati chiave hanno votato per Trump con un margine di 15 punti, con il 56% dei voti andato all’ex presidente e solo il 41% alla vicepresidente Kamala Harris, mentre tra i cattolici bianchi il vantaggio è stato ancora più ampio, con il 60% che ha sostenuto l’ex presidente Adista News. Questi dati segnano la fine di quella tradizionale equidistanza che aveva caratterizzato il voto cattolico, sempre diviso quasi paritariamente tra i due schieramenti. Emerge invece un blocco consistente che ha fatto propria l’agenda conservatrice radicale del movimento MAGA.
La conversione del vicepresidente J.D. Vance al cattolicesimo tradizionalista non è un dettaglio biografico ma il sintomo di una trasformazione più profonda. Make America Great Again non è uno slogan ma un progetto di redenzione, tutt’altro che ingenuo: è la risposta a una crisi spirituale collettiva Il Bo Live UniPD. Trump ha intuito prima di molti pastori e vescovi che esisteva un bisogno insoddisfatto in cerca di risposte, un vuoto di senso che la politica tradizionale non riusciva più a colmare. Ha così trasformato la politica in liturgia salvifica, il comizio in rito collettivo, il programma elettorale in messaggio escatologico.
La tentazione imperiale contro la Chiesa di frontiera
Il cattolicesimo che si è affidato al trumpismo ha una visione molto occidentale della Chiesa cattolica, molto legata agli Stati Uniti come l’erede vero, non solo dell’Europa, ma anche dell’Impero Romano. È una visione imperiale Il Manifesto. Questa concezione contrasta radicalmente con la prospettiva bergogliana di una Chiesa che esce non solo dalla sacrestia ma anche dall’Occidente, che cerca il proprio baricentro nel Sud globale, tra i migranti, i poveri, gli scartati dal sistema economico dominante.
La frattura non riguarda soltanto opzioni pastorali o strategie comunicative, ma l’essenza stessa della fede e il suo rapporto con il potere. Molti cattolici che sostengono Trump hanno questa visione che lui sia una specie di messia politico venuto per salvarci dal woke e dalla distruzione dell’America tradizionale. E a questo messia si riconoscono dei poteri che vanno al di là della Costituzione, dei diritti fondamentali della persona Il Manifesto. Il fenomeno religioso si è mutato in ideologia di dominio: slogan come “Jesus is my savior, Trump is my President” circolano su merchandising che trasforma la fede in brand commerciale, la devozione in gadget consumistico, la trascendenza in narcisismo collettivo.
Siamo di fronte a quella che potremmo definire, con categorie gramsciane, una lotta per l’egemonia culturale all’interno del cattolicesimo stesso. Da una parte un progetto che subordina il Vangelo all’ideologia nazionalista, che benedice le deportazioni di massa e celebra come virtuosa la durezza verso i più deboli. Dall’altra la tradizione profetica che da padre Daniel Berrigan arriva fino a Francesco, una Chiesa che considera il migrante come figura cristologica e vede nell’opzione preferenziale per i poveri non un optional caritatevole ma il cuore stesso del messaggio evangelico.
Il peso strutturale nelle istituzioni
I cattolici negli Stati Uniti sono 53 milioni, il 20% degli adulti americani; la chiesa cattolica è in molte aree del Paese in crescita, una chiesa viva, in cui le nuove forze sono soprattutto forze che articolano un cattolicesimo di tradizione, di forte identità e di contrapposizione alla sinistra, al liberalismo RSI. La presenza cattolica permea le istituzioni del potere con un’intensità impensabile fino a pochi decenni fa in un paese storicamente anti-papista: sei dei nove giudici della Corte Suprema sono cattolici, l’amministrazione Trump del 2025 si distingue per una presenza significativa di cattolici in ruoli chiave, con almeno una dozzina di nomine di cattolici praticanti in posizioni di vertice, inclusi membri del Gabinetto e consiglieri senior Centro Machiavelli.
Eppure questa maggioranza istituzionale non significa univocità. Nella stessa Corte Suprema convivono sensibilità teologiche e politiche inconciliabili. L’orientamento della maggioranza dipende da tre cattolici conservatori moderati: il presidente John Roberts, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett, che hanno dato segnali di distacco dal progetto autoritario di Trump, in particolare sul tema dei migranti VOLERE LA LUNA. La resistenza passa anche attraverso figure come la giudice Sonia Sotomayor, rappresentante del cattolicesimo progressista erede della tradizione pacifista del gesuita Daniel Berrigan, oppositore della guerra in Vietnam e delle ingiustizie sistemiche.
La Chiesa cattolica americana si ritrova così ad essere simultaneamente uno dei pilastri dell’establishment conservatore e uno dei pochi spazi dove ancora si articola una critica radicale all’ideologia dominante. Questa ambivalenza strutturale la rende un campo di battaglia cruciale per determinare non solo gli orientamenti della società americana, ma gli equilibri globali del cattolicesimo e, di conseguenza, le dinamiche geopolitiche dell’intero pianeta.
Leone XIV: la mediazione impossibile
L’elezione di Robert Francis Prevost con il nome di Leone XIV appare come tentativo di mediazione in un contesto dove ogni compromesso rischia di essere percepito come tradimento da entrambe le parti. Papa Leone XIV dovrebbe essere in grado di gestire questa situazione meglio di quanto sia riuscito a fare Francesco. L’elezione di Prevost, che su molti temi sembra in continuità con Bergoglio ma è percepito come più tradizionalista, sembra dettata dal bisogno di riguadagnare influenza tra i cattolici statunitensi e di ricomporre quella frattura Internazionale.
Il nuovo pontefice porta con sé un’esperienza biografica che dovrebbe renderlo naturalmente capace di fare da ponte: nato a Chicago, missionario per undici anni in Perù tra le comunità più povere, prefetto del Dicastero dei Vescovi sotto Francesco con responsabilità sulla nomina dei vescovi di tutto il mondo, cittadino peruviano oltre che americano. Questa identità ibrida dovrebbe consentirgli di parlare simultaneamente al Nord e al Sud globale, alla tradizione e alla profezia, all’istituzione e alla periferia.
Ma il contesto politico in cui si trova ad operare è esplicitamente ostile a qualsiasi mediazione. Trump, pochi giorni prima del conclave, aveva pubblicato sui social un’immagine di sé vestito da papa: non una battuta o una provocazione scherzosa, ma una dichiarazione messianica che rivendicava un’autorità spirituale superiore a quella del Vaticano stesso. La scelta di un nome programmatico – Leone, richiamo a Leone I che fermò Attila e a Leone XIII che aprì la Chiesa alla questione sociale – indica la consapevolezza della drammaticità della sfida.
Il ritorno della religione sulla scena mondiale
La crisi di civiltà americana è una crisi di fede, prima di tutto in se stessa, e non può essere compresa senza valutare in profondità la crisi religiosa, teologica e intellettuale del cattolicesimo. Il contrasto tra progetto neoconservatore e progressismo teologico permane nella chiesa degli Stati Uniti, ma in uno scenario più complesso Appuntidiculturaepolitica. Quello che emerge con forza dirompente è il ritorno della religione come fattore identitario e geopolitico, dopo decenni in cui si era creduto di poterla relegare definitivamente alla sfera privata della coscienza individuale.
La polarizzazione cattolica americana non è un fenomeno isolato ma riflette e alimenta le tensioni internazionali su ogni grande questione del nostro tempo: dalle politiche migratorie alla guerra in Ucraina, dal confronto con la Cina all’instabilità del Medio Oriente, dalla giustizia climatica alle diseguaglianze economiche. Ogni questione diplomatica s’intreccia ormai indissolubilmente con divisioni ecclesiali che investono dottrina, liturgia, etica sociale, visione antropologica.
La secolarizzazione negli Stati Uniti non è un ripiegamento in buon ordine della religione, ma una trasformazione della fede (in Dio, nel capitalismo, nella politica, nella scienza, nell’America stessa) in forze ed energie che sono diverse, contraddittorie, e violenti Appuntidiculturaepolitica. Non assistiamo dunque alla scomparsa del religioso ma alla sua metamorfosi in forme nuove e spesso inquietanti: la fede mutata in ideologia di dominio, il messianismo politico mascherato da ortodossia, la liturgia trasformata in marketing elettorale, la trascendenza ridotta a instrumentum regni.
Leone XIV eredita una Chiesa dove l’egemonia culturale si gioca in una partita che ha come poli principali Washington e Roma, dove la questione non è più se la religione conti nelle dinamiche internazionali, ma quale religione – quale interpretazione del cristianesimo, quale lettura del rapporto tra fede e potere – diventerà egemonica nei decenni a venire. Una partita il cui esito determinerà non solo l’assetto interno del cattolicesimo, ma gli equilibri globali di un mondo che credeva di aver archiviato la religione come residuo premoderno destinato all’estinzione, scoprendo invece che essa ritorna sulla scena con una potenza inattesa, travestita da politica ma con l’antica pretesa totalizzante di dettare il senso ultimo dell’esistenza collettiva e di legittimare o delegittimare l’ordine costituito.





