Stiamo scivolando dalla guerra in Europa alla guerra europea. Sicché i costi del conflitto ucraino che gli americani non vogliono né possono sostenere di qui all’eternità vanno ripartiti fra gli alleati disponibili.
Washington invita europei, canadesi e altri alleati a stringere con Kiev accordi bilaterali più o meno impegnativi di sostegno finanziario, diplomatico e militare. Scadenza decennale, rinnovabile. Intese a geometria variabile, stipulate al volo o in corso d’opera. Dovrebbero coprire tutte le fasi della vittoria, o di qualcosa battezzabile tale: dall’armare la resistenza sul terreno volta a riconquistare le province cadute in mano russa alla futura ricostruzione dell’Ucraina integrata nell’Unione Europea. Ma nei magazzini dei Ventisette di armi ne restano poche e non tutti fremono dalla voglia di cederle a Kiev.
Quanto ai soldi, misurabili nelle centinaia di miliardi, non è chiaro da quale sorgente magica sgorgheranno.
Propaganda più che sostanza, specie nel nostro caso.
Attenzione però: se la propaganda poggia sul nulla, o peggio sul travisamento della realtà, la tentazione di trarne una strategia operativa potrebbe prevalere sulla ragione fredda e spingerci inavvertitamente alla guerra totale.
Il cessate-il-fuoco cui parte degli apparati americani ed europei inclina e che la maggioranza delle opinioni pubbliche continentali, italiana inclusa, vorrebbe subito è impraticabile perché sanzionerebbe la vittoria russa.
O peggio preparerebbe la seconda ondata dell’aggressione, nei tempi scelti da Putin o dal suo successore.
Almeno così temono i dirigenti ucraini e l’avanguardia antirussa della Nato, convinti che la Russia si lancerà alla riconquista dell’ex impero europeo dell’Urss. Ipotesi ardita, visto che scatenerebbe la guerra atomica. Il Cremlino non è club di suicidi. La virata tattica elaborata dalla Casa Bianca e accettata più o meno convintamente dai governi atlantici serve anche a mascherare le profonde faglie che dividono la nostra alleanza.
Incompatibili, fra l’altro, con la visione occidentale che designa la guerra d’Ucraina epicentro del nuovo ordine bipolare in costruzione: Est autocratico (Russia, Cina e seguaci) contro Ovest democratico, con i pluriallineati del cosiddetto Sud Globale invitati a optare per noi — ma refrattari. Opzione rigettata da India, Brasile, Sudafrica, altri Brics e dintorni. Ma anche dalla Turchia, con un piede atlantico l’altro “globale” e orecchi non sordi alle sirene russe e siniche, disposta a rischiare di inciampare su sé stessa pur di accelerare la scalata neoimperiale.
Lo slogan “mondo libero contro dittature”, recuperato dalle cantine della guerra fredda, eccita la controretorica del Citrus, sigla con cui l’Università di Oxford introduce lo stranissimo quartetto Cina-India-Turchia-Russia. Il 77% dei cinesi è convinto che la “vera democrazia” sia la propria, come il 57% degli indiani, il 36% dei turchi, maappena il 20% dei russi, quasi pari alla quota di chi preferisce la democrazia americana (18%). I moscoviti in guerra contro l’Occidente sono più filoamericani degli atlantici turchi, mentre gli indiani correttamente fanno gli indiani.
E noi facciamo gli italiani. Le quindici pagine dell’Accordo sulla cooperazione di sicurezza fra Italia e Ucraina ondeggiano fra vacuità e ambiguità. E non ci impegnano a nulla, perché altrimenti sarebbero dovute passare al vaglio del parlamento — tabù nell’autoproclamata repubblica parlamentare. Continuiamo a fare “politica” invece di geopolitica. Per “politica”, accento sulle virgolette, s’intende il teatrino provinciale cui ci siamo accomodati dalla fine della Prima Repubblica in avanti, con progressione geometrica. La sceneggiata è come la droga: più ne prendi più ne dipendi.
Della politica manca l’ingrediente base: culture politiche in competizione organizzate in partiti radicati nella società e usi di mondo. Quanto alla geopolitica, senza politica è impossibile, se non come gioco da tavolo. Senza dibattito pubblico qualche ragionamento geopolitico può esprimersi al massimo negli apparati dell’intelligenza e della forza. Per restarci. Lo Stato profondo suppone lo Stato, mai virgolettabile, sicché anche gli esercizi dei tecnici tendono al futile.
Questa repubblica ad amministrazione disaggregata diagnosticata da Cassese, ridotta ad arcipelago, “mal si presta a eseguire direttive altrui e a elaborare procedure proprie”.
La propaganda è il sale della guerra, assicurano i propagandisti. Non concordiamo. Ma seppur fosse vero, quando l’incendio ti circonda e già lambisce le pareti di casa hai l’obbligo di dire la verità almeno a te stesso e ai tuoi. E di non credere alle balle che racconti per consumo esterno o per confondere il nemico, confondendoti.
Salvo scoprirti sonnambulo alle soglie della terza guerra mondiale. Noi europei non siamo pronti alla guerra ultima. In realtà non lo è nessuno.
Tantomeno gli abitanti del continente più ricco, vecchio, disarmato, pacioso.
E fra gli europei gli italiani meno di tutti.
Invece di precipitare verso la guerra allargata, potremmo contribuire a una tregua illimitata in Ucraina, premessa della futura pace, che di riflesso sarebbe anche nostra. Dalla voragine in cui è precipitata l’opinione pubblica ucraina si divide su se e quanto le convenga continuare nella guerra per procura in nome di un successo totale possibile solo ove la Russia sprofondasse nel caos o sparisse dalla faccia della Terra. Ciò che non lascerebbe immune nessuno, compresi coloro che se l’augurano. Mentre il licenziamento da parte di Zelensky del capo delle Forze armate, il popolare generale Zalužnyi, sostituito da un russo etnico ex soldato dell’Armata Rossa (sì, questa è anche una guerra civile postsovietica), annuncia che a Kiev è riaperta la stagione della caccia al potere. Come non chiedersi chi gestirà gli aiuti che invieremo agli ucraini? Domanda accompagnata dall’inconfessabile senso di colpa di quegli occidentali che stanno perdendo la voglia di sostenerne la resistenza dopo averli eretti a combattenti per la nostra causa (non chiarissima). Però senza di noi, troppo preziosi a noi stessi. Vi armiamo finché possiamo e voi morite per noi finché potete.