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di Federico Rampini
È durata poco la sceneggiata di una separazione «amichevole» fra Elon Musk e Donald Trump. Il primo ad aprire le ostilità è stato l’imprenditore di Tesla, StarLink e SpaceX. Ha definito «abominevole e disgustoso» il progetto di legge di bilancio che il Congresso sta discutendo, proposto dalla Casa Bianca. Secondo lui se passa quella manovra finanziaria aumenterà a dismisura un deficit pubblico «già gigantesco». Sui fatti ha ragione. Da un lato questa valanga di accuse è destinata a confermare le paure che i mercati finanziari nutrono sulla politica di bilancio americana. D’altro lato questa polemica è rassicurante. Non ha torbidi retroscena. Perfino la dimensione psicologica, la rissa tra i due egomaniaci, è secondaria. Lo scontro vero è politico: fra un iperliberista e un populista.
La cultura economica di Musk è quella del premio Nobel Milton Friedman, di Ronald Reagan e Margaret Thatcher; o più di recente Javier Milei. Lui vi aggiunge una fede illimitata nelle tecnologie.
L’attenzione ai votiPer Trump parlare di cultura economica è eccessivo. Però è uno che sa contare i voti. Il mondo operaio che lo ha portato alla Casa Bianca per la seconda volta non gli ha affidato la missione di usare la sega elettrica contro la sanità pubblica (Medicare, Medicaid) o le pensioni (Social Security). A dispetto degli stereotipi su un’America priva di welfare, le voci principali della spesa pubblica sono assistenza medica e pensioni.
Sul bilancio federale si è logorato quello che era stato descritto come l’asse portante del potere americano. Prima Musk ha cercato di svolgere sul serio la missione Doge: Department of Government Efficiency.
Delusione, le lobby degli statali si sono rivelate più furbe e agguerrite di lui. Poi ha rivolto lo sguardo alla manovra per la quale Trump cerca i voti al Congresso. Orrore. Non riduce deficit e debito come dovrebbe, anzi.
Plutocrazia in ritirataLa rottura è clamorosa solo in apparenza. È un colpo di scena per chi si era affezionato al «teorema dell’oligarchia»: l’idea che l’America con l’elezione di Trump avesse smesso di essere una democrazia, per diventare un regime diretto da un ristretto gruppo di plutocrati, capitalisti onnipotenti.
Musk, che doveva essere il numero uno dei presunti oligarchi, si ritira e medita vendetta. Lungi dall’arricchirlo il sodalizio con Trump finora gli è costato caro (calo dei valori di Borsa; caduta del fatturato Tesla). D’altro lato la missione politica di cui Musk si era innamorato si è arenata fra mille resistenze: l’alleanza fra le lobby del pubblico impiego e la magistratura ha bloccato molte sue decisioni. È stato vittima pure lui dell’illusione di molti imprenditori prestati alla politica, che hanno creduto ingenuamente di trasferire nello Stato il decisionismo e la velocità delle aziende private.
L’altro potere che ha sconfitto Musk è la Casa Bianca. In Trump l’istinto populista prevale sull’ideologia. La metamorfosi che ha imposto al partito repubblicano lo ha portato dalla rappresentanza della borghesia alla difesa di ceti mediobassi, dove lui ha guadagnato consensi perfino tra giovani e minoranze etniche.
La destra sociale esce vincitrice dal primo scontro serio con la tecno-destra. Ora vedremo se quest’ultima ha una base consistente, per esempio fra i giovani digitali innamorati delle criptovalute. La tribù che Musk aveva portato in dote a Trump può fare secessione e diventare partito? Ma il bipartitismo Usa ha sempre stritolato i tentativi di fondare terze forze. E Musk sopravvaluta — proprio come i suoi detrattori — il potere che gli danno X e il suo denaro.