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L’ipotesi che la visita a Roma di Beppe Grillo potesse mettere ordine nel caos del M5S si sta rivelando un miraggio. Due giorni di permanenza nella capitale finora hanno aumentato la confusione. I messaggi filtrati nello spazio di poche ore dilatano l’immagine di un Movimento allo sbando; e di un fondatore incapace di riprendere in mano la situazione, tra reprimende, minacce e battute. La discussione è all’insegna dell’opacità e di veline velenose: al punto da far rimpiangere quella caricatura della trasparenza che era lo «streaming», le discussioni teletrasmesse. Sono convulsioni che oscurano lo scontro nel centrodestra, dalla Lombardia alla Sicilia, dopo la sconfitta ai ballottaggi. Rispetto ai dilemmi di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, quelli tra Grillo, il leader Giuseppe Conte e un M5S esangue, trasmettono disperazione. Prima si fa sapere che il garante sarebbe disponibile a discutere l’appoggio esterno al governo di Mario Draghi, come suggerisce Conte, sospinto dalla cerchia degli orfani di Palazzo Chigi. Pochi minuti dopo, però, Grillo sostiene che il M5S rimane al governo. Ma chi era presente alla riunione con quello che resta dei parlamentari dopo la scissione di Luigi Di Maio, assicura di averlo sentito meno ben disposto nei confronti del premier. Il risultato è che si registra una vistosa sfasatura tra dichiarazioni ufficiali e confidenze semiprivate, mescolando verità e falsità. Da un coacervo di parole in libertà riemerge solo la tentazione di scaricare su Draghi la crisi interna. Ma, tra metaversi e battute comiche, si rischia la farsa. «Se Draghi pensa che il Movimento sia quello del guaglione di Pomigliano d’Arco allora non ci stiamo al governo…», avrebbe detto il garante, dando del «Giuda traditore» al ministro degli Esteri; e ritagliandosi implicitamente, forse con una punta di eccessiva autostima, il ruolo dell’Elevato tradito. Ancora, avrebbe definito Di Maio, condizionale d’obbligo, un «furbo» per avere consumato «una scissione a tavolino». Considerazione singolare, perché se è così l’insipienza di chi avrebbe dovuto denunciarla senza subirla, risulta eclatante. Nel tramonto rapido della formazione che nel 2018 prometteva di rivoluzionare l’Italia, a colpire è un’autoreferenzialità da psicodramma. C’è il terrore di chi, dopo due mandati, teme il divieto a ricandidarsi ribadito, per ora, da Grillo; e quello di ministri in bilico in caso di appoggio esterno, anticamera di un’irrilevanza già marcata. La giornata di ieri si chiude con l’ennesimo abbraccio d’ufficio Grillo-Conte a beneficio delle telecamere. E con l’alt di Draghi alla proroga del superbonus sulle ristrutturazioni edilizie: una delle bandierine grilline.