di Marcello Sorgi
La vittoria di Meloni e Marsilio in Abruzzo chiude – per il momento – qualsiasi tentativo di ricavare dal voto delle regionali un segnale di crisi degli equilibri nazionali e il sogno di un’alternativa già a portata di mano. C’è ancora, come alle politiche di un anno e mezzo fa, un elettorato “con l’elmetto”, per usare la frase della presidente del consiglio nel suo ormai famoso comizio di Pescara. Un popolo di destra che ama essere chiamato alle urne ogni volta come alla battaglia finale; e quando viene convocato, si presenta compatto e vince. Perfino in una regione tradizionalmente moderata – si potrebbe dire, ma oggi non si usa più, democristiana – come l’Abruzzo.
Presto Meloni potrebbe essere tentata di mettersi l’elmetto anche in Basilicata, in Piemonte, oppure, l’anno prossimo, nel Veneto governato da vent’anni dal “doge” Zaia con bonomìa e attenzione alla lenta maturazione dei propri cittadini (vedi il diritto al suicidio assistito). Potrebbe farlo perché sa che sebbene non siano contenti al cento per cento del suo governo, agli elettori della sua parte piace essere mobilitati contro “la sinistra”, argomento che ricorre non a caso in tutti i suoi interventi. In un certo senso la battaglia d’Abruzzo è stata la contesa tra il “cattivo” Marsilio, che ha vinto, e il “buono” D’Amico che ha perso.
Il “cattivo” non si è preoccupato di apparire in tv nervoso, in qualche caso perfino arrogante, di digrignare i denti, di contestare i dati negativi della sua gestione illustrati dai giornali altro che con “sono tutte falsità”. Il “buono”, a voce bassa, ha cercato di persuadere gli elettori dell’importanza del passaggio elettorale, della possibilità di cambiare le cose rispetto all’avversario, delle risorse nascoste della regione che avrebbero potuto essere utilizzate meglio. Gli hanno creduto, stando all’affluenza in crescita soprattutto nelle zone a lui più vicine e al risultato finale, ma non fino al punto da farlo vincere, se si considera l’ancora alto tasso di astensionismo. Poi appunto ha giocato il valore nazionale crescente della consultazione durante la campagna.
Perché è vero che i candidati in tutte le manifestazioni elettorali parlavano soprattutto dei problemi abruzzesi, la sanità che non funziona, qui come altrove, le strade, le ferrovie, la mancanza di lavoro. Ma è evidente che se una regione negli ultimi giorni prima del voto viene invasa da una decina di ministri, comandati di presentarsi e promettere ciò che manca, vuol dire che il governo di Roma qualche timore ce l’aveva. E d’altra parte, basta commisurare quel che era accaduto dopo la vittoria del centrosinistra in Sardegna, temuta, contrastata e alla fine incassata dal centrodestra. Celebrazioni tipo presa del Palazzo d’inverno, la neo-governatrice portata in giro, anche in Abruzzo, come l’esempio del modo di vincere con il “campo largo” (che in Sardegna però non c’era, trattandosi di alleanza Pd-5stelle).
Un trionfalismo esagerato che forse ha nociuto ieri all’affermazione dell’alleanza. Ora tutti si chiedono cosa succederà. Nulla o quasi nulla di diverso da quanto s’è visto finora. Se in Basilicata e in Piemonte il centrosinistra non riuscirà a superare le divisioni – ed è più difficile che ci riesca dopo la gelata abruzzese – il centrodestra avrà l’occasione di cogliere nuove vittorie, stavolta a tavolino. Perseverando anche con le sue divisioni interne, con Salvini, il cui partito resta in codice rosso, tentato di distinguersi e smarcarsi pur di conquistare visibilità. Seppure la visibilità non si traduce in voti, e gli elettori di destra è da un po’che hanno dimostrato di preferire l’elmetto di Meloni al Carroccio e ai capricci del Capitano, schierato con Trump quando Meloni riceve il bacio sulla fronte da Biden, e con Putin, ciò che è peggio, quando la premier ribadisce la sua amicizia con la presidente della Commissione europea Von der Leyen e la sua piena solidarietà con la Nato nello scenario della guerra in Ucraina.
Sebbene il voto in Basilicata sia alle porte, si tratta tuttavia di una piccola regione, niente a che vedere con quella in cui s’è votato ieri, che qualcuno – Dio lo perdoni! – era arrivato a rinominare “l’Ohio italiano”. La vera scadenza, ormai davanti agli occhi di tutti, saranno le elezioni europee del 9 giugno. In cui, come si sa, si vota con il sistema proporzionale e con le preferenze: ciò che significa, per ciascuno, cercare voti per se è il suo partito, anche a scapito dei propri alleati. E soprattutto, mancano ormai poche settimane, comporta per ogni leader decidere se candidarsi.
Un recente studio di Alessandra Ghisleri, sondaggista tra le più autorevoli, ha dimostrato che sul piano regionale, com’è apparso chiaro sia in Sardegna che in Abruzzo, la scelta del candidato governatore pesa per il sessanta per cento sul risultato. Adesso occorrerà calcolare il valore del traino dei leader. Per capire se saranno costretti a scendere in campo, o avranno gusto e coraggio di mettersi in gioco personalmente.
QUELL’ODIO CHE CONTINUA A VIVERE IN MEZZO A NOI
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