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L’intervista a Cristiano Leone, uscita oggi sul Corriere di Siena, è piena di belle parole: si parla di cultura come cura, condivisione, spiritualità, di arte che unisce e che fa pensare. Ma dietro tutto questo, manca qualcosa di importante: la realtà concreta di Siena e di cosa serve davvero alla città.
Leone racconta il suo percorso internazionale e la sua idea di arte, ma lo fa con un linguaggio molto complicato e vago. Parla di “città-oracolo” e di “piedistalli sospesi tra pensiero e paesaggio”, ma non dice mai in modo chiaro cosa si vuole fare, con chi, e come. Siena invece ha bisogno di idee semplici, forti e realizzabili. Ha bisogno di cultura che crei lavoro, coinvolga le scuole, valorizzi i giovani, apra davvero i luoghi pubblici.
Il suo modo di esprimersi ricorda molto quello del Ministro della Cultura Angelo Giuli: tanti concetti alti, tante frasi eleganti, ma poca concretezza. È un linguaggio che fa effetto, ma che spesso nasconde il vuoto di idee reali. E anche la cultura, se non si misura con la realtà, rischia di diventare solo un esercizio di stile.
Anche quando Leone parla di arte femminile e dice che non serve più parlare di “differenze”, perché conta solo l’opera, il discorso non convince. Oggi le donne, le persone LGBTQ+ e le minoranze culturali sono ancora penalizzate nel mondo dell’arte. Dire che “siamo tutti uguali” suona bene, ma non è ancora vero. Le differenze vanno riconosciute, rispettate, valorizzate. Non basta dire belle parole: servono azioni concrete per cambiare le cose.
L’arte, se vuole davvero contare, non deve solo decorare gli spazi, ma anche far pensare, creare discussione, a volte disturbare. Deve parlare anche a chi oggi si sente escluso. L’accessibilità non vuol dire banalizzare, ma ascoltare, includere, spiegare.
E poi c’è una domanda centrale: possiamo davvero parlare di arte contemporanea al Santa Maria della Scala? La risposta è no, almeno per ora. Non c’è un progetto serio e continuo. Non ci sono artisti in residenza, non si fa ricerca, non si producono nuove opere. Le poche mostre finora – come quella di Jacob Hashimoto – sono belle da vedere, ma non ci mettono in discussione, non fanno crescere una vera cultura contemporanea.
Se vogliamo che l’arte sia davvero parte della vita della città, dobbiamo cambiare rotta. Basta eventi occasionali. Serve un progetto stabile, aperto, coraggioso. Serve spazio per chi lavora, studia e crea, anche fuori dai soliti giri. Solo così l’arte può aprire strade nuove. Non solo decorare quelle vecchie.