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7 Ottobre 2022Dalla Ruhr a Taranto, i dati confermano che l’inquinamento tende a concentrarsi proprio nei territori colpiti dal degrado socio-economico. E dove si intrecciano ingiustizie sociali e disuguaglianze ambientali
Cosa hanno in comune luoghi come l’Ilva in Italia, Ineos Chemicals Grangemouth in UK, Lausitz Energie Kraftwerke e la regione della Ruhr in Germania?
Si tratta dei cosiddetti left-behind place in Europa. Il termine left behind è stato introdotto dalla letteratura di scienza politica, sociologia e geografia per identificare i luoghi «lasciati indietro o abbandonati dalla politica, dall’attenzione dei media», i luoghi della marginalità e dell’abbandono, al di fuori del mainstream urbano. Sono stati spesso associati al voto populista e di destra, alla Brexit, alla revenge degli emarginati).
Se la dimensione politica e culturale di questi territori è stata messa sotto osservazione, un aspetto poco in luce è che molto spesso il degrado economico e materiale si accompagna al degrado ambientale. Si parla di territori in cui si rilevano alte concentrazioni di CO2 ma anche contaminati da componenti tossiche come gli inquinanti organici persistenti (Pop), proibiti dalla convenzione di Stoccolma nel 2001 ma ancora rilevati da European Pollutant Release and Transfer Register (E-Prtr), un dataset molto utile a monitorare le emissioni degli stabilimenti in Europa.
La deindustrializzazione nociva
L’abbandono di tali territori è in primis di natura economica, essendo ex aree ad alta specializzazione produttiva nella manifattura, in particolare nel chimico, nel metallurgico, nel minerario e in generale nel settore energetico; settori che a partire dagli anni Ottanta hanno sperimentato un graduale processo di «deindustrializzazione», ossia hanno visto una progressiva riduzione della quota di occupati impiegata.
Tale fenomeno di deindustrializzazione, che si accompagna al processo di terziarizzazione dell’economia capitalistica, è stato tuttavia perseguito abbandonando non solo posti di lavoro, in generale maschili e relativamente ben pagati (la blue-collar working class dei minatori della Thatcher), ma anche abbandonando rifiuti tossici e creando forme di lock-in (ossia di «dipendenza») produttivo e sociale delle aree di interesse. Da ciò la nozione di deindustrializzazione nociva.
Se in un luogo coesistono la precarietà economica, l’inquinamento nocivo e l’abbandono/marginalità, secondo la geografia sociale si tratta di una zona di sacrificio, ossia un territorio che può essere «sacrificato» rispetto agli interessi e moventi del tecnocapitalismo neoliberale. Il concetto di «zona di sacrificio» concepisce l’inquinamento tossico come un esercizio di potere che insiste su una regione e i suoi abitanti, dando luogo a una geografia tossica disomogenea e articolata secondo direttrici di profittabilità produttiva. Tale esercizio di potere implica il «diritto di inquinare» consentito da un assunto economico naturalizzato, derivante dalla dipendenza economica rispetto all’industrializzazione nociva.
Tuttavia tali territori segnati dall’abbandono non sono neutrali e neanche neutralizzati in termini di lotte. La presenza di tali industrie sporche, pericolose e minacciose per la salute umana rappresenta un caso particolare di spazialità del potere, come concettualizzato da Doreen Massey. Intorno a queste industrie, le lotte sociali e sindacali sono di fatto modellate dalla loro relazione materiale con la produzione capitalistica diretta alle attività inquinanti (si veda ad esempio il caso riportato su Jacobin del litio serbo). Dato che in questi luoghi gli interessi operai sono materialmente incorporati nel processo di produzione, la dipendenza territoriale e individuale si rafforzano a vicenda e conducono a uno sviluppo economico dipendente dall’inquinamento ambientale.
Disuguaglianza ambientale e disuguaglianza sociale
I left-behind place tuttavia rappresentano degli esempi archetipici della nocività del capitalismo attuale. Stiamo infatti vivendo l’innestarsi di tre crisi – climatica, sociale ed economica – i cui effetti sono ormai ben visibili. Nonostante sia più che urgente comprendere come la tutela e l’affermazione dei diritti del lavoro e dell’ambiente debbano essere trattati da strategie di politica economica integrate e in grado di fronteggiare la tripla crisi, prevale ancora la narrativa del falso ricatto: o la salute (o l’ambiente) o il posto di lavoro. Non a caso, il dibattito sulla regolamentazione degli inquinatori industriali è spesso dominato dal presunto compromesso tra inquinamento e occupazione.
Il nesso «occupazione-ambiente» è un campo di battaglia politico da decenni, con tante lotte ancora aperte. Lotte che hanno messo in luce come il cosiddetto «job-killing argument» della politica ambientale e industriale sia un falso dilemma che spesso contiene anche un ricatto occupazionale, così come discusso dalle teorie dell’ecologia della classe (si vedano ad esempio i lavori di Richard Kazis e Richard Lee Grossman, Lorenzo Feltrin e Devi Sacchetto, o Stefania Barca ed Emanuele Leonardi). Ciò accade perché un left-behind place sta già soffrendo di una progressiva deindustrializzazione e non è oggetto né di processi di upgrading tecnologico che possano ridurre l’impatto ambientale degli impianti né tanto meno di riconversione produttiva (si veda a tal proposito il Just Transition Fund lanciato dall’Unione europea).
Se più conosciute sono le evidenze riguardo le morti e le malattie professionali causate dal rilascio di sostanze chimiche tossiche nell’aria, ben poco è noto sugli effetti negativi dell’inquinamento sulla deprivazione socioeconomica, soprattutto in termini di impatto su variabili del mercato del lavoro come il salario, l’occupazione e la migrazione dai territori marginalizzati in cui coesistono inquinamento da sostanze tossiche e deindustrializzazione. Ce ne occupiamo in un lavoro in cui avanziamo un’ipotesi empirica esplorativa che mostra come esistano processi di stratificazione di esposizione ai rischi ambientali, economici e sociali.
La nostra analisi è condotta attraverso la costruzione di un nuovo dataset che collega l’inquinamento geolocalizzato a livello di impianto con delle variabili del mercato del lavoro regionale e demografiche. In questo modo, copriamo più di 1.200 regioni in 15 Paesi europei nel periodo 2007-2018. Lo studio documenta come la presenza di un impianto altamente inquinante in una determinata area influisce negativamente sullo sviluppo economico locale e provinciale, sia in termini di segregazione occupazionale concentrata in tale impianto/settore, inducendo dipendenza da un’industrializzazione nociva, sia in termini di traiettoria economica povera e caratterizzata da cattiva specializzazione. Il risultato finale in molti casi è che l’intero territorio collassa in un luogo di abbandono della popolazione, con ridotte opportunità di occupazione, bassi salari e spopolamento.
Consideriamo il noto caso dell’acciaieria Ilva di Taranto. Quest’ultimo rappresenta una chiara combinazione di mancato aggiornamento tecnologico, assenza di investimenti nel miglioramento delle tecniche di produzione e presunta contrapposizione tra occupazione e salute, rivelato da un orientamento proprietario-gestionale storicamente resistente a promuovere il progresso tecnico nello stabilimento. Tuttavia, il modello di mono-industrializzazione dell’area ha creato una forte dipendenza economica in termini di opportunità di lavoro.
Discorso simile si può fare per la regione Ruhr in Germania e in particolare per le città di Duisburg e Bochum. Oggi questa regione è caratterizzata da un’alta incidenza di inquinamento tossico e da una debolezza economica strutturale. Un tempo complesso polo di crescita industriale, profondamente specializzato nel carbone, nel ferro e nell’acciaio, è oggi uno dei molteplici esempi in Europa di trappole regionali di cieca specializzazione, che creano dipendenza economica e ostacolano le opportunità di transizione verso percorsi di decarbonizzazione. A riguardo è appena uscito un documentario che lega le esperienze di Detroit a quelle di Bochum nel bacino della Ruhr.
Lungi dal seguire un ordine casuale, anche la distribuzione dell’inquinamento altamente tossico tra le aree tende a concentrarsi, e lo fa proprio in quei luoghi che sperimentano il degrado socio-economico. In questo senso, la disuguaglianza ambientale e sociale tendono a stratificarsi. La problematizzazione dell’esposizione alla nocività come elemento di stratificazione viene ripreso nella letteratura statunitense con la nozione della «giustizia ambientale». L’ingiustizia ambientale si riferisce a una società in cui alcuni membri sopportano una quantità diseguale di impatti ambientali e un accesso diseguale al processo decisionale a causa delle loro identità sociali, come la razza, l’etnia, la nazionalità, il reddito, e il genere. Negli Stati uniti, la dimensione della razza è la principale variabile studiata, evidenziando il razzismo ambientale del funzionamento quotidiano del capitalismo. Come tale, si producono vulnerabilità, contaminazione e morte.
Per una coscienza ecologica di classe
Dal nostro studio emerge una mappatura europea dei luoghi della tossicità industriale e della nocività produttiva. La lente della giustizia ambientale nelle zone di sacrificio industriale è efficace nell’individuare territori abbandonati in cui la tossicità ambientale e il declino socioeconomico coesistono e si riproducono. La nostra analisi empirica evidenzia sia la dipendenza nociva che i territori abbandonati hanno sviluppato rispetto alla decadenza industriale sia l’effetto di espulsione di manodopera (labour-saving) del cambiamento tecnico ambientale, specifico delle industrie estrattive e fossili, laddove tecniche migliorative in grado di ridurre sostanze tossiche siano adottate.
Attraverso la lente della violenza lenta del sacrificio, scopriamo che l’erosione socio-economica agisce come agente chiave necessario per la (ri)produzione di spazialità di potere che segnano la differenza tra nuclei e periferie. Pertanto, l’esposizione a lungo termine ai prodotti/pericoli tossici, associata al lento decadimento della contaminazione chimica, mantiene e rafforza le divergenze regionali. Nel complesso, il rapporto tra lavoro, capitale e ambiente messo a nudo dall’analisi solleva interrogativi sulla sostenibilità ambientale e sociale del capitalismo e si chiede se i lavoratori delle geografie tossiche non debbano tornare in prima linea nel movimento per la giustizia ambientale e la giusta transizione, come il ciclo di lotte di Porto Marghera studiato tra gli altri nel citato lavoro di Feltrin e Sacchetto ha insegnato.
Nello specifico, rileviamo due effetti dell’inquinamento tossico: un effetto di primo ordine secondo il quale l’intensità dell’inquinamento tossico è associata positivamente all’occupazione e ai salari a livello industriale. Non sorprende che questo risultato sia limitato a luoghi con mercati del lavoro già depressi, quindi a favore della dipendenza nociva che i territori abbandonati hanno sviluppato con la decadenza industriale. Un effetto di secondo ordine secondo cui la riduzione del mix di inquinanti a livello di impianto, una proxy del cambiamento tecnico in termini di efficienza ambientale, è associata negativamente all’occupazione industriale e ai salari, anche in questo caso con valori più elevati per i luoghi depressi.
A comprova dei nostri risultati, casi studio riportano come la deindustrializzazione sfocia facilmente in una decadenza industriale, senza che si registri una riallocazione dell’occupazione in altri settori, ma piuttosto un’empasse in «cattivi» lavori. La storia recente è infatti ricca di casi di deindustrializzazione nociva in cui la perdita di occupazione e la tossicità continuano a coesistere e la riconversione non viene intrapresa. Questa considerazione apre la questione dell’economia politica dei territori abbandonati, nella misura in cui potrebbero trasformarsi in «zone di sacrificio» che possono – e in qualche misura «meritano di» – sostenere il costo di strategie di sviluppo non sostenibili.
Nel complesso, l’analisi individua la stratificazione dei rischi socio-economici e ambientali e rivela un altro canale di disuguaglianze e asimmetrie che caratterizzano il capitalismo moderno, ovvero la disuguaglianza ambientale che esacerba la deprivazione economica. Da un punto di vista politico, affrontare le conseguenze economiche dell’inquinamento tossico è fondamentale per la progettazione di politiche industriali specifiche per ogni territorio, in grado di riconvertire le «zone di sacrificio» riducendo l’inquinamento tossico e favorendo così la transizione verso una società più giusta dal punto di vista sociale e ambientale.
Come sostenuto da Barca e Leonardi, l’ambientalismo operaio deve mettere al centro la lotta per la giustizia ambientale (vedi anche l’intervento di Matt Huber su Catalyst) – un concetto alla base dell’ecologia politica. I danni ai territori in cui coesistono la deprivazione del mercato del lavoro, spesso associata a nocive empasse industriali, e le crisi ambientali e sanitarie devono essere politicizzate. La coscienza ecologica di classe è fondamentale per portare avanti un’agenda che superi la narrazione del ricatto occupazionale. I luoghi lasciati indietro devono diventare soggetti delle lotte ambientali e della transizione verde.
L’eliminazione graduale del carbone richiede l’ampliamento della nozione di «transizione giusta». Occorre capire come questi gruppi sociali possano essere efficacemente compensati, difendendo ad esempio i posti di lavoro dei minatori di carbone e dei colletti blu nei settori ad alta intensità energetica. Affinché le politiche ambientali e climatiche appianino le disuguaglianze territoriali, la politica deve tener conto della specializzazione industriale, del lock-in tecnologico (ciè della «cattura» o «dipendenza»), della segregazione occupazionale e della dipendenza produttiva da industrie altamente tossiche nei territori della marginalità, all’interno di un mercato del lavoro segnatamente diviso tra chi perde e chi vince dalla transizione verde in chiave produttivista.
I soggetti che perderanno domani dalla transizione verde lavorano oggi nelle industrie manifatturiere ed estrattive ad alto inquinamento, abitano i left-behind place, svolgono mansioni a bassa e media qualificazione, e ricevono salari risibili. Sono gli stessi soggetti che hanno perso a causa della globalizzazione, a causa dell’austerità e da ultimo su cui si è depositato il peso della pandemia. Sono gli stessi soggetti dell’astensionismo elettorale, delle periferie urbane, e del disagio sociale. Da qui devono iniziare le risposte immediate.
*Charlotte Sophia Bez è ricercatrice presso il Potsdam Institute for Climate Impact Research e dottoranda in Economia presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Si occupa di economia politica dell’ambiente. Maria Enrica Virgillito è ricercatrice in Economia Politica presso l’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna.