Sarà il primo vero esame di maturità per Giorgia Meloni.
E, con lei, per l’intero governo di destra che ha l’ambizione di guidare il Paese per i prossimi anni. Guidarlo per portarlo dove, verrebbe da chiedere.
Dal fatidico sì o da un eventuale diniego di pancia alla ratifica del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) – atteso in commissione oggi e in aula entro il 30 giugno dipenderanno i destini di una leadership, forse. Di certo, ed è quel che più conta, la credibilità che Roma ha saputo costruire faticosamente da dieci anni a questa parte. In ultimo, grazie alla presidenza passepartout di Mario Draghi.
E invece, quanto sta succedendo in queste ore tra Palazzo Chigi e Montecitorio non lascia presagire nulla di buono. La premier Meloni, obbedendo al richiamo ancestrale della sovranista che è in lei più che alla responsabilità che dovrebbe muovere il capo di un governo europeo, si sta clamorosamente mobilitando per isolare ancor più l’Italia.
Rimasta ormai l’unico Paese a non aver adottato lo strumento che vuole essere di salvaguardia e dunque di garanzia, intanto per i piccoli correntisti in caso di eventuale crisi del sistema bancario. Con lei, neanche a dirlo, si muove la vecchia guardia dei Fratelli d’Italia e l’intera falange salviniana degli antieuropeisti in formato Pontida. Ed è ancor più paradossale che a indicare l’unica via percorribile per uscire dal vicolo cieco nel quale ci siamo cacciati sia, in rotta coi suoi, il ministro (leghista) Giancarlo Giorgetti, ormai ultimo baluardo di un europeismo moderno in una compagine dai tratti vetero-sovranisti. In trincea, dall’altra parte della barricata, c’è tutto il rottame post trumpiano che vive il Mes come un tabù, l’Europa ancora come una matrigna, Bruxelles come una ridotta di esosi burocrati. Sono loro – Meloni e Salvini in prima fila – i figli della vecchia stagione populista che non riesce a proiettarsi oltre le Europee del 2024.
Ma Salvini fa il Salvini, storia macchiettistica a sé, fotografata dalla parabola discendente del suo consenso più che dagli amati selfie. La fondatrice di Fratelli d’Italia invece no, lei sarebbe un’altra storia. Meloni non fa mistero di volersi giocare tra un anno tutte le sue carte da premier e da leader conservatrice per entrare, assieme ai popolari di Von der Leyen, nel governo d’Europa. Magari contribuire a eleggere i vertici della nuova Commissione: upgrade impensabile fino a pochi anni fa per la “destrina” autoreferenziale italiana. Ecco, la cronaca di queste ore contrasta clamorosamente con le sue ambizioni. Del resto, anche i ripensamenti minimalisti sull’utilizzo dei fondi del Pnrr tradiscono timori e incertezze non esattamente in linea con una strategia di governo sicura e competente.
Non bisognerà attendere dodici mesi: anche dalla scelta della maggioranza sul Mes entro una settimana dipenderanno le sorti di un intero progetto politico. Ed è molto probabile che un suggerimento in questa direzione lo abbia dato perfino Emmanuel Macron, durante l’ora e mezza di colloquio che i due hanno avuto all’Eliseo martedì pomeriggio. L’inquilina di Palazzo Chigi è tra gli sponsor del Fondo sovrano europeo, per esempio. Ma come pensa si possa costruire, se l’Italia si ritroverà fuori, da sola, dalla parallela rete di protezione del Mes?
Perché di questo parliamo, dietro la sigla apparentemente criptica del Meccanismo europeo di stabilità. Non si tratta di un congegno ideato da un club di economisti per fare gli interessi delle banche (vecchia vulgata sovranista): è stato istituito con un trattato nel 2012 per “concedere assistenza finanziaria ai Paesi membri che trovino temporanee difficoltà nel finanziarsi sul mercato”. È spiegato, con questa semplicità e in questi termini, sulla homepage della Banca d’Italia.
E se l’Italia si tira fuori piomba in una doppia contraddizione, dato che Roma ha già sottoscritto il capitale del Mes per 125,3 miliardi, versandone oltre 14. Dei 500 miliardi a disposizione in caso di crisi, anche il sistema Italia potrebbe avvalersi, ma non sarà costretto a farlo (altra fake anti europeista).
La clessidra sta per esaurirsi. Ieri la premier Meloni e la sua maggioranza l’hanno semplicemente fermata. Avranno ancora poche ore di tempo per fare la loro scelta, abbandonare la strada che porta a Budapest e gettare la maschera caricaturale del becero populismo.
Di qua c’è l’Europa, di là l’Est che ha voltato le spalle alla solidarietà, ai diritti e al futuro.