Andiamo ad Algeri, imbarcandoci di nuovo su un piroscafo. Questa volta, è quello di Film Socialismo, l’odissea mediterranea che Godard ha girato nel 2010. Nella spuma creata dal movimento della nave, Godard fa apparire uno schermo bianco. E viene subito da proiettarci un’immagine, un ricordo, una città. La voce off dice: «Algeri, la bianca. Quando Mireille Balin pianta in asso Pépé le Moko». Una frase, e siamo subito là. Dove? Nel film di Duvivier del 1937? Certo. Nella Casbah dove il bandito Pépé le Moko si è nascosto? Ovviamente. Ad Algeri? Non proprio. Andiamo con ordine.
Il bandito della Casbah (titolo originale Pépé le Moko) è una produzione francese, fa parte di quel periodo del cinema
transalpino, tra la sonorizzazione e la seconda guerra mondiale, che viene chiamato «realismo poetico» e che è dominato da alcuni cineasti, tra cui Duvivier, e da una star senza pari: Jean Gabin. Il film comincia come un classico poliziesco alla Maigret, con la carta topografica della città e la voce off di un ispettore, che però subito avverte : «Algeri non è Parigi e la Casbah non è Pigalle». E continua spiegando ai suoi colleghi venuti dal continente, e a noi spettatori che abitiamo le stesse sponde, la particolarità di questo quartiere malfamato, fatto di vicoli strettissimi, di locali senza nome e sovrastato da una seconda rete viaria che si sviluppa attraverso i tetti, uno contiguo all’altro, con i quali ci si può muovere segretamente dalle alture della città fino al mare. In realtà, con la sua popolazione di zingari, di russi e di africani, la Casbah di Pépé le Moko, al contrario di quanto afferma l’ispettore, è proprio una trasposizione della Pigalle del tempo. Lo stesso vale per la scenografia. Solo alcune inquadrature panoramiche sono realizzate sul posto. Per gli stessi motivi per i quali, nella finzione, è difficile reperire il bandito Pépé detto le Moko, sarebbe arduo – per gli standard produttivi della metà degli anni 1930 – girare il film nel dedalo di Algeri. Il quartiere è quindi ricostruito negli studios alle porte di Parigi.
AL TEMPO STESSO, anche quella Casbah di cartapesta ha una sua verità. Possiamo andarci, o meglio ritornarci. Ci troveremmo ancora Pépé, il figlio del popolo, che una sera incontra l’elegante «demi-mondaine» (equivalente dell’odierna escort) Gaby, al secolo Mireille Balin. La scena, vale il viaggio. I due si scrutano. Poi comincia un duello topografico. Lui evoca la Parigi popolare, lei gli ribatte con quella chic. Moko: «La rue Saint-Martin», Gaby: «Les Champs Élysées». Lui: «La Gare du Nord», lei: «l’Opéra». Ancora: «La Chapelle, la rue Montmartre; Boulevard Rochechouart, la rue Fontaine ». Infine, entrambi all’unisono: «La place Blanche!». Dov’è che una demi-mondaine poteva incontrare un bandito gentiluomo, se non sulla piazza del Moulin Rouge, che incidentalmente è anche il luogo dove Jean Gabin iniziò la sua carriera d’attore?
D’altra parte, non dovevamo visitare Algeri? Certo, la città è un oggetto reale, con le sue strade, le sue case, i suoi monumenti, la sua pianta, i suoi abitanti. Ma ogni inquadratura nega tutte le altre inquadrature possibili. Ogni percorso
nella città è una sua reinvenzione. È del movimento incessante di finzione e realtà che, percorrendo la città, la reinventa, ciò di cui ci parla Godard. E di quel turbinio d’immagini che è il lavorio stesso della macchina cinematografica. Così come, nella frase da cui siamo partiti, è l’attrice Mireille Balin (e non il personaggio fittizio Gaby) a piantare in asso Moko (e non Jean Gabin), alla stessa maniera la Casbah cinematografica, con il suo romanticismo coloniale, ingenuo e non per questo meno criminale, ha finito per piantare in asso l’Algeri effettiva. La Casbah di Moko, grazie al successo internazionale del film, diventa il modello di tutto un indistinto magreb cinematografico, segnatamente hollywoodiano – da Casablanca di Michale Curtiz fino alla Tangeri di The Bourne Ultimatum passando per L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock.
ALCUNI FILM occidentali hanno provato a mettere in scena un’altra Casbah. Il più noto di questi è per certo La Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (1966), nel quale la Casbah è restituita alla sua realtà di quartiere arabo, separato dalla città frequentata dai pieds noirs (i coloni francesi). Meno noto, o meglio dimenticato, è l’adattamento di Visconti dello Straniero di Camus, con Marcello Mastroianni e Anna Karina, rispettivamente nel ruolo di Arthur Mersault e Marie Cardona. Con il film di Visconti, girato nel 1967, torniamo al 1935, gli stessi anni di Moko. Gli zingari e i russi sono scomparsi, ma gli algerini non hanno preso il loro posto. O meglio, ci sono, ma come una parte indistinta del paesaggio. Durante il processo, ci si riferisce all’uomo che Mersault ha ucciso chiamandolo «l’arabo». Pontecorvo ha cercato al contrario di far esistere un’immagine diversa di Algeri. Ma la sua illusione è quella, forse ancor più ingenua, di poter semplicemente sostituire un’immagine (falsa) con un’immagine (vera). Mentre il cinema è più un affare di fantasmi che di oggetti. È un luogo di morti viventi, le sue immagini non scompaiono, si sovrappongono, si stratificano vampirizzandosi a vicenda.
Tariq Teguia
Rimango del parere che l’Algeria non sia molto diversa da una certa Italia, essendoci uno spazio condiviso che è il Mediterraneo
DOPO l’indipendenza, i cineasti algerini hanno per lo più evitato di girare nella Casbah. E più in generale, hanno preferito le montagne e i villaggi dell’Aurès alle spiagge di Algeri. Chi ha avuto il coraggio di tornare a filmare Algeri, sfidando tanto la rappresentazione occidentale che l’agiografia rivoluzionaria del cinema nazionale algerino, è stato il cineasta Tariq Teguia, con il suo splendido e drammatico Roma wa la n’tourna (2006) il cui titolo, alla lettera «meglio Roma di voi», suona come un manifesto politico. In compagnia dei suoi due giovani eroi, Kamel e Zina, entriamo in un altro dedalo, tra il porto commerciale e la periferia, le case in costruzione e le spiagge colme di rifiuti. Giriamo intorno alla città vecchia, oggi patrimonio dell’Unesco, senza vederla mai, ai margini d’una guerra civile che ha tolto ai giovani ogni speranza. Espulsi dal centro della città, la coppia gravita intorno ad essa, cercando un’impossibile tangente, attraversando una terra di nessuno che potrebbe trovarsi in Calabria, in Sud America o persino ad Algeri.
Mireille Balin, stella dalla tragica caduta
Se c’è una donna che rappresenta al tempo stesso Algeri, la Casbah e la rivoluzione, questa è Djamila Bouhired. Di lei abbiamo parlato nel secondo episodio di «Le fuorilegge» (Il manifesto, 12 luglio 2019). E, con lei, del film egiziano del 1958 «Djamila l’Algérienne» di Youssef Chahine. La storia di Mireille Balin è assai diversa da quella di Djamila, per molti versi opposta, pure con qualche tragico punto in comune. Proprio in quel feuilleton, notavamo: alle fuorilegge la folla non grida «assassina, ladra, terrorista» ma piuttosto «puttana, fatti stuprare». Mireille Balin è stata il volto femminile del cinema francese degli anni 1930. Nel 1941, frequenta gli ambienti della collaborazione. Si innamora di un ufficiale tedesco e si trasferisce con lui a Nizza. Dopo lo sbarco alleato, i due fuggono a Monaco. Si nascondono in un castello, ma sul posto arriva un gruppo di partigiani. Mireille Balin viene ripetutamente stuprata, in seguito viene arrestata. Liberata, torna a Parigi, dove prova invano a reinserirsi nel mondo del cinema. Muore in miseria nel 1968 a Clichy.