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7 Giugno 2025Anniversari Nel 1835 nasceva il poeta del ribollir dei tini oggi poco frequentato anche nelle scuoleHa cantato l’Italia post risorgimentale di piccoli impiegati e di solida borghesia, disdegnando le mode
Giosue Carducci, a 190 anni dalla nascita, forse lo abbiamo messo da parte con troppa disinvoltura. Un secolo fa, nel 1925, ci pensò Eugenio Montale, in Stile e tradizione , a condannare «i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianismo ed altre bacature». Il «messianesimo» era per Pascoli, il «superomismo» per D’Annunzio e i «furori giacobini» riguardavano il capofila della «illustre triade», cioè il Carducci, che dei tre è oggi il più malmesso. Infatti Pascoli è riletto come precursore della modernità (anche grazie a Pasolini) e D’Annunzio, dopo una breve rimozione negli anni Cinquanta, è tornato a rifiorire. Invece il declino carducciano, nonostante benemerite resistenze, è continuato, e oggi, a scuola, si tende a non leggerlo.
Nato a Valdicastello di Pietrasanta in Versilia, cresciuto nella Maremma livornese, tra Bolgheri e Castagneto, si trasferisce nel 1849 con la famiglia a Firenze, dove frequenta le Scuole Pie degli Scolopi. Radici e formazione affondano in Toscana: laurea nel 1856 alla Normale di Pisa, insegnamento nel ginnasio di San Miniato (dove nel 1857 pubblica il primo libro, Rime , Tipografia Ristori, tiratura di 520 copie), poi nel liceo «Forteguerri» di Pistoia. La svolta nel settembre 1860, quando il ministro dell’Istruzione Terenzio Mamiani lo nomina per chiara fama (venticinquenne) sulla cattedra di eloquenza (poi letteratura italiana) dell’Università di Bologna, dove rimane per oltre quarant’anni, fino al 1904. Il capoluogo emiliano diventa la sua città, la sede del suo magistero educativo (la cosiddetta «scuola storica») e il luogo d’irradiazione della sua poesia. Ma la terra toscana resta indimenticata nei suoi versi. Carducci, insignito del Nobel nel 1906, ha lasciato un segno profondo nel costume nazionale. Si tratta di un privilegio raro, prerogativa toccata in epoca moderna solo a lui e D’Annunzio. Infatti si può parlare di un’Italia carducciana, di breve durata (anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento) e di una dannunziana più longeva (dai Novanta dell’Ottocento agli anni Quaranta del nuovo secolo). Tra le due una distanza considerevole.
Cosa vuol dire Italia carducciana? Subito dopo l’assestamento del nuovo Stato unitario, Carducci s’impone come guida. Nella fase di crisi economica e istituzionale legata ai problemi dell’Unità, in un clima di smarrimento per il crollo dei valori risorgimentali, la sua figura di poeta-vate e poeta-professore ha assunto il ruolo di restauratore della tradizione classicistica, come rifondatore di perdute certezze patrie. S’è richiamato al patrimonio di un glorioso passato, tra antichità latina e età comunale, dando alimento al bisogno di fiducia e sicurezza della nuova società, con aculei d’invettiva verso il malcostume contemporaneo.
Di qui i «furori giacobini» condannati da Montale. L’Italia carducciana è un Paese di insegnanti liceali e di borghesia impiegatizia, di piccoli imprenditori e solidi borghesi. A questi lettori Carducci offre una poesia della storia che tenta di richiamare in vita una grandezza perduta. L’operazione ha il limite dell’artificio e della retorica, ma è di nobile tempra. Il clima cambia dagli anni Novanta, quando D’Annunzio veste i panni del superuomo e, in nome di un ambiguo culto della bellezza (che implica il disprezzo verso la massa incolta), accende estetizzanti velleità di potenza, in lettori ambiziosi e avidi di emozioni. Operazione più complessa, seduttiva e pericolosa (come le successive vicende del Paese hanno mostrato).
Ma il fatto è che Carducci non si è fermato alla magniloquente scenografia di eroiche sopravvivenze senza riscontro nella realtà. C’è anche una poesia della storia umile e dimessa, di tono pacato, eppure fiero, come Il comune rustico («o noci de la Carnia, addio!»). C’è il rigore etico d’un autore che rifiuta di «incivettirsi» l’anima per seguire la moda del giorno (lo afferma nella Prefazione alle Poesie dell’ed. fiorentina di Barbèra, 1871): «Affacciarsi alla finestra a ogni variare di temperatura per vedere quali fogge vesta il gusto della maggioranza legale, distrae, raffredda, incivettisce l’anima. Il poeta esprima sé stesso e i suoi convincimenti morali ed artistici più sincero, più schietto, più risoluto che può: il resto non è affar suo». Grandi doti, la schiettezza e la sincerità (tanto invocata da Saba). C’è poi il Carducci che, deposta la toga del professore, soffre il crollo di quel mondo che s’è illuso di risuscitare. E giunge a esprimere con realistica evidenza la sbigottita desolazione delle proprie inquietudini. Avviene con i versi che danno voce a un’amarezza non rischiarata dalla speranza: «Ma ci fu dunque un giorno / su questa terra il sole?» (Tedio invernale ). Avviene con l’animazione di tanti volatili che introducono nella poesia segnali luttuosi, come «i voli / sghembi» delle rondini in Una sera di San Pietro , come gli «uccelli raminghi» che picchiano «a’ vetri appannati» in Nevicata , come il lugubre «stuol di gufi» intorno «a vecchio monaster» in Brindisi funebre . Il sollievo è trovato nella creazione d’un mondo di sognata naturalità (un paesaggio della mente), come nel miracoloso San Martino: «per le vie del borgo / dal ribollir dei tini / va l’aspro odor de i vini / l’anime a rallegrar». Qualche istante di pace è trovato in istantanee apparizioni di rasserenanti figure femminili: come Lidia di Alla stazione in una mattina d’autunno («O viso dolce di pallor roseo, / o stellanti occhi di pace»), come la fanciulla di Ad Annie (dai «grandi occhi di fata»), come la nonna di Davanti San Guido («alta, solenne, vestita di nero / parvemi riveder nonna Lucia»), la nonna dall’accento toscano «pieno di forza e di soavità». Questo Carducci (almeno questo) merita di restare vivo tra noi.
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