Ripuliamo Siena
3 Maggio 2023Le référendum sur l’âge du départ à la retraite n’aura pas lieu
4 Maggio 2023L’ultimo film di Nanni Moretti emoziona e fa discutere a sinistra. Facendo la «storia con i se», dà ragione agli insorti di Budapest del ’56 e ripara ai torti di Togliatti, rendendo possibile pensare al futuro
Alla fine, Ennio, il segretario della sezione Gramsci del Partito comunista italiano nel 1956, protagonista del film che Giovanni, il regista attore Nanni Moretti, sta girando ai nostri tempi, non si suicida più. La decisione è la chiave di volta de Il sol dell’avvenire, il bel film che sta facendo discutere non poco a sinistra. La chiave che prepara il finale del film, il vero pezzo forte dell’ultima opera morettiana, in grado di dischiudere un orizzonte di speranza e bellezza, di emozioni che permettono di uscire dalla sala con il sorriso sulle labbra.
In questo «whatafuck» sicuramente tardivo per gli standard che nel film piacciono a Netflix – l’incontro con la piattaforma statunitense è uno dei momenti cult – c’è la matrice politica e, ovviamente, narrativa del film, perché se evita il suicidio Moretti lo fa grazie al ricorso alla storia controfattuale.
Ennio non riesce a credere che i sovietici possano aver invaso l’Ungheria e represso gli insorti del 1956. Il personaggio di Silvio Orlando è intriso del patrimonio genetico di un filone del comunismo italiano, in piena buona fede rispetto agli ideali che il partito custodisce e rispetto alle intenzioni della casa madre russa, convinto della piena coerenza tra le scelte del partito e i valori di fondo. Ennio è anche un uomo buono: è il segretario che riunisce i cittadini per accogliere l’arrivo della luce elettrica nel quartiere ultra-periferico del Quarticciolo, che quando rinnova il tesseramento discute con i compagni di cosa li fa stare bene e di cosa li inquieta, degli orizzonti che hanno di fronte. È, soprattutto, il compagno di Vera, sarta, che mette in primo piano la passione e l’amore. Grazie a loro in quel quartiere arriva il circo Budavari, ungherese, come gli insorti di Budapest, e loro lo accolgono con gli occhi accesi come quelli dei bambini entusiasti di poter vedere gli elefanti e poi i cavalli, i clown o i trapezisti.
Lo sguardo di Ennio è disorientato quando vede i carri armati russi entrare a Budapest, sparare sui compagni ungheresi. Da segretario di sezione prende tempo, aspetta di sapere cosa dirà il partito mentre Vera è già pronta a offrire solidarietà a quella rivolta, perché i comunisti e le comuniste fanno così (e invece il movimento comunista, tranne poche eccezioni, sosterrà la decisione dell’Urss e il quotidiano del Pci, l’Unità, farà titoli orribili a sostegno dei carri armati sovietici, titoli che Moretti ci mostrerà).
Il dissidio sarà sempre più forte fino alla contrapposizione, che avviene nella sede dell’Unità dove Ennio lavora, tra Vera alla guida di un drappello di compagne e compagni firmatari del documento di solidarietà con l’Ungheria e Ennio, rigoroso difensore, sia pure a malincuore, delle ragioni del partito rifiutando di pubblicare quel testo perché «ormai il giornale è già chiuso».
Si va quindi verso il finale che prevede l’impiccagione di Ennio, suicidatosi per non aver potuto reggere quello scontro, quel conflitto politico, amoroso, interiore.
E qui si materializza il whatafuck, lo scarto e il salto di qualità reso possibile dall’immedesimazione tra Ennio e Giovanni, il regista tormentato dalla propria vita, dalla fatica di completare il film per mancanza di fondi, dalla moglie, Margherita Buy, che ha deciso di lasciarlo, da una vita piena di «sonniferi e anti-depressivi» e dal campionario dei tic di cui ci ha assuefatto negli anni il cinema morettiano. Giovanni, nel momento in cui fa vedere a Ennio-Silvio Orlando come deve girare la scena del suicidio, si infila il cappio al collo in un’immagine straziante, e decide improvvisamente che la scena non si girerà. Abbandona solitario il set, si muove verso un’altra prospettiva.
Whatafuck, qui davvero ci muoviamo nel campo della filosofia della storia. «Chi l’ha detto che la storia non si fa con i se», spiega Giovanni al troppo vecchio fidanzato della figlia durante un pranzo in cui racconta il nuovo finale. Si dischiude così la speranza ricorrendo alla storia controfattuale: il Pci del ‘56 accoglie le ragioni degli insorti di Budapest e dei contestatori italiani, l’Unità titola, con simpatica naiveté, «Addio Urss» e sulla base di questa decisione i militanti della sezione Gramsci possono sfilare, insieme ai circensi del Budavari, anzi in groppa ai loro elefanti, lungo i Fori romani in un tripudio di bandiere rosse sotto l’immagine rivoluzionaria di Lev Trotsky. Sì, l’oppositore di Stalin, ucciso nel 1940 dopo aver sostenuto, dal 1929 in poi, la tesi della degenerazione della rivoluzione e la necessità di ripristinare lo spirito originario dell’Ottobre.
Moretti, la cui attrazione verso i trotskysti è confermata non solo dalla frequentazione negli anni Settanta del collettivo studentesco «Il Soviet» animato anche da Paolo Flores d’Arcais ma dalla notorietà che ha conferito nei suoi precedenti film all’immaginario «pasticciere trotskysta», fa un’operazione spericolata per il pubblico italiano dove il trotskysmo è rimasto, per quanto nobile, una storia al margine. Chissà l’effetto che farà in Francia quando il film sbarcherà al festival di Cannes.
L’immagine di Trotsky che campeggia sul corteo-sfilata, comunque, è un colpo di scena, il modo più eclatante per riscrivere la storia con i «se», affidando all’influenza del principale, e per molto tempo unico, oppositore di Stalin i destini del movimento comunista a venire che, come da didascalia finale, sono comunque agganciati «all’utopia comunista di Karl Marx e Friedrich Engels che ancora oggi ci rende tanto felici». E sarebbe facile, e tutto sommato risarcitorio verso una corrente tanto deturpata dal comunismo ortodosso, fermarsi a questa irruzione della memoria «altra» e fare un elogio del trotskysmo rimosso e ancora vivo, sia pure fuori tempo massimo, per tirare le fila politiche del film.
Ma oltre a Trotsky occorre ricorrere a un’altra anima nobile, e inquieta, del comunismo eretico ed eterodosso per recuperare il senso di questa visione: Walter Benjamin. Perché la storia con i «se», la storia controfattuale, in cui si recuperano le «ragioni dei vinti» e si accarezza il continuum storico a contropelo e non assecondando la folle corsa verso l’avvenire, è frutto soprattutto della sua lezione.
Facendo sfilare i ribelli del ‘56 non si raccoglie infatti «un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra»? Non si percepisce nitidamente che «siamo stati attesi sulla terra» e che «il passato ha un diritto»? Nel momento in cui deve fare i conti con il suicidio, Moretti-Giovanni-Ennio fissa «l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo» e proprio in quel pericolo decide di dare luce al lato nascosto e impossibile.
Certo, si tratta di un esercizio dialettico, avrebbe detto Benjamin – dalle cui Tesi sul concetto di storia sono tratte le citazioni che ho fatto sopra – o retorico per molti che vedendo il film sono rimasti disturbati dalla scelta di «un manifesto di inattualità» (Stefano Cappellini su Repubblica) o dalla stessa immagine di Trotsky, figura che ancora oggi provoca repellenza in chi si è nutrito del comunismo togliattiano, quello che il film mette, giustamente, alla gogna.
Ma questo «balzo di tigre» nel passato per recuperarne il tempo attuale, il «Jetztzeit» scrive Benjamin, opera una discontinuità nel tempo storico per recuperare, con approccio messianico e finalizzato alla redenzione, l’esplosività incompiuta tessendo, come scrive Michael Lowy, «nella trama del presente i fili della tradizione che sono stati perduti nel corso dei secoli».
L’opera di redenzione è così vitale che il finale del film fa scorrere le facce sorridenti di tutti i protagonisti della storia, compreso Togliatti, compresi moltissimi attori e moltissime attrici che hanno lavorato con Moretti nei suoi film precedenti, come se volesse rappresentare un sunto della storia morettiana, la chiusura di una parte della propria vita, il riassunto di mille racconti.
Mai come in questo caso il film è il suo finale, che risolleva una visione generalmente godibile – ma su questo è facile dividersi tra estimatori e non di Moretti – costellata dal ritorno di vecchi tic e cimeli del repertorio morettiano (la tirata sui Sabot e su come i piedi debbano essere calzati, ma riappare anche la mitica coperta di Sogni d’oro) che ruota attorno alla visione morale del regista che proprio per questo, oltre che per la trama scelta, è autore di un film politico.
Nella storia «con i se», anche Giovanni trova la via di uscita dall’ipoteca cui sembra stringerlo la nuova produzione coreana del film (il vecchio produttore, il francese Mathieu Amalric, è stato arrestato per chissà quali intrallazzi), «un film in cui tutto finisce», non solo la prospettiva politica, ma anche la vita privata e sentimentale, il rapporto con la figlia, il cinema per come lo intende e invece è oggi appannaggio di certe scene di violenza che Giovanni cerca disperatamente, per otto ore, di bloccare oppure preda di piattaforme come Netflix.
Grazie alla storia fatta con i se, invece, non finisce tutto, la felicità è ancora possibile, sia pure appena accennata, e mette insieme la politica, l’amore, la vita, come insegna «l’utopia comunista» che chi l’ha detto che debba andare perduta solo perché un sistema politico, burocratico e istituzionale se n’è impossessato rendendola orribile e indigesta?
La storia «con i se» diviene l’antidoto al suicidio e potrebbe sembrare che resti confinata a un esercizio mentale, un metodo di ricostruzione storica in cui «l’empatia con i vinti» (ancora Benjamin) sale in cattedra e rende possibile quello che lo storico non ha saputo vedere. E invece è un’opportunità per pensare il futuro, per non non rassegnarsi alla sconfitta, per non permettere che «tutto finisca». Ridare ragione agli insorti di Budapest, riparare ai torti di Togliatti, la cui eredità ha condizionato negativamente la sinistra anche dopo lo scioglimento del Pci, non è soltanto giocare a una sorta di «facciamo finta che», ma è un metodo per recuperare semi da spandere per costruire libertà ed emancipazione, idee di partecipazione collettiva, una briciola gettata per recuperare l’immaginazione. E anche un metodo per dischiudere il potenziale espressivo di un film che grazie a un whatafuck inaspettato riesce a emozionare.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre 2018) e di Si fa presto a dire sinistra (Piemme 2023).