ALESSANDRO BARBERA
FRANCESCO OLIVO
Fratelli d’Italia contro Forza Italia. Parlamento contro governo. Ministri contro viceministri. La prima Finanziaria dell’era Meloni sarà approvata prima dello spumante di mezzanotte del 31 dicembre ma lascerà una scia di veleni nella maggioranza. Ieri il clima a Montecitorio era pessimo. In mattinata il ritardo accumulato in commissione Bilancio era tale da far paventare il voto dell’aula della Camera fino a sabato, giorno della Vigilia. Per molti parlamentari, soprattutto quelli che vivono lontano da Roma, significherebbe non essere a casa per la cena di Natale. Per evitare fughe incontrollate prima della fine delle votazioni, i capigruppo di maggioranza sono corsi ai ripari. E così, all’ora di cena si è deciso di mettere in calendario il voto di fiducia a partire dalle undici di venerdì mattina.
La premier sapeva sin dall’inizio che approvare la legge di Bilancio in pochissime settimane dall’insediamento a Palazzo Chigi sarebbe stato complicato, ma non fino al punto di costringere pezzi della maggioranza allo scaricabarile. L’ultimo in ordine di tempo è di ieri pomeriggio sulla depenalizzazione dei reati fiscali. Il capogruppo di Fratelli d’Italia Tommaso Foti esce dalla sala del Mappamondo e attacca: «Si tratta della proposta di un singolo, non condivisa. L’emendamento non è mai stato depositato». Il «singolo» a cui allude Foti è il viceministro forzista alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Ma la verità è un’altra: l’ipotesi di un colpo di spugna penale che accompagnasse la «tregua fiscale» per gli evasori era stata studiata in via XX settembre già un mese fa da Maurizio Leo, viceministro alle Finanze del partito di Meloni. E l’ipotesi aveva una ratio molto precisa: senza quelle norme, i grandi evasori non avrebbero aderito al meccanismo grazie al quale restituire le tasse non pagate a prezzo di sconto. In quei giorni a impedire che le norme entrassero in Finanziaria è il Quirinale, mentre Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti sono a Bali per il vertice G20. Fino ad allora Giorgetti – poco esperto di fisco – aveva lasciato piena autonomia a Leo. Da qualche giorno il ministro leghista ha voluto come consulente al ministero l’ex sottosegretario di Scelta Civica, il tributarista Enrico Zanetti, un indizio di scarsa fiducia nei confronti del collega meloniano.
Giorgetti non ha nessuna voglia di fare da parafulmine dei problemi della maggioranza. Nella notte di domenica, appena avuta notizia della richiesta degli uffici di Montecitorio di spacchettare gli emendamenti governativi per materia, ha sbottato: «È la prima volta che accade, prendiamo atto di tanto zelo». Il plurale comprende Meloni, lo zelo è riferito al compagno di partito, il presidente della Camera Lorenzo Fontana, reo di non aver fatto nulla per aiutarlo. Ieri, il ministro ha rincarato la dose, stavolta contro le intemperanze di Forza Italia che insisteva per ulteriori modifiche. A metà pomeriggio, di fronte all’ennesimo stallo, una fonte del ministero del Tesoro rilascia una dichiarazione eloquente: «Le Camere ritengono di non modificare la legge di Bilancio? Può essere approvato il testo originale del governo». Se l’opposizione volesse cavalcare fino in fondo le difficoltà della maggioranza potrebbe fare ostruzionismo. Non sta accadendo per almeno due ragioni: non dare alibi al governo, e perché ammansita con alcune concessioni. Il Pd si è intestato il rifinanziamento del bonus psicologico, i Cinque Stelle molti altri emendamenti, uno dei quali dedicato alla lotta al dissesto idrogeologico. Per il Terzo polo è stata l’occasione di distinguersi: per protestare contro i pasticci della maggioranza i parlamentari centristi hanno lasciato i lavori della commissione e rinunciato ai 15 milioni di euro stanziati per accogliere le loro proposte di modifica.
Se tutto andrà come previsto, il Senato si riunirà il 27 dicembre per votare un testo inemendabile, con buona pace del bicameralismo perfetto e il sollievo della premier, che ha fissato per il 29 la consueta conferenza stampa di fine anno.