L’ANNIVERSARIO
Cento anni fa Mansfield moriva in Francia ospite dell’istituto di Gourdjieff, il luogo amato dagli intellettuali della prima New Age
Cento anni fa, in Francia e precisamente a Fontainebleau, appena fuori Parigi, presso l’Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo (e della donna, oggi aggiungeremmo), il 9 gennaio del 1923 moriva Katherine Mansfield. Ovvero, KM, come si firma la nostra scrittrice — con l’accelerazione di chi non ha neppure il tempo di compilare per intero il suo nome. E si nasconde in un acronimo.
Aveva appena assistito a una delle danze sacre con cui il filosofo greco-armeno, Georges Ivanovi? Gourdjieff, che è anche scrittore, e mistico, e maestro di ballo, aveva intrattenuto i suoi ospiti. In quel criticatissimo istituto, molto all’avanguardia, e very New Age, in cui ci si prendevacura della mente come dell’anima, all’inizio di quel secolo bello e tremendo che è stato il Novecento, si potevano incontrarethe best minds di una generazione di intellettuali e di artisti in cerca di emozioni diverse. Negli anni vennero Pamela L. Travers, per intenderci quella di Mary Poppins, e René Daumal, il cuiMonte Analogo , dalla forte dimensione iniziatica, è al luogo ispirato. Vi approdò Alfred Orage, studioso appassionato di Nietzsche, ed editor di The New Age ,rivista in cui invita a scrivere Pound, Yeats, e la stessa KM. E Olgivanna Hinzenberg, che diventerà la moglie di Frank Lloyd Wright — la quale Olgivanna, oltre che ottima danzatrice, fu tra le donne che nell’istituto si presero cura di KM. Quanto al maestro Gurdjieff, se subito si rese conto di non poterla guarire, le offrì, se non altro, un luogo dove morire. E almeno in parte un ascolto che la scrittrice non trovò presso altri, più o meno sofisticati, medici e pneumologi.
In termini di vita e di morte, del resto, Gurdjieff ragionava proprio come KM, e cioè pensava che la vita umana veniva per lo più vissuta dalle persone ordinarie in una condizione di veglia apparente, in uno stato prossimo al sogno; mentre per giungere alla piena coscienza, per cogliere quelli che l’amica di KM, Virginia Woolf, chiamerà i “momenti di essere”, bisognava approssimare un livello superiore di vitalità. Perché ha ragione Virginia Woolf (ne hanno parlato più volte insieme le due amiche a Londra), la vita quotidiana è per lo più avvolta da un’ovatta di momenti di non essere, viviamo per lo più di puri e semplici automatismi, di ripetizioni passive, inconsapevoli. Poi c’è il momento indicibile, quando chi vive prova l’emozione del vivere;quando la realtà tocca la pelle viva, e come fossimo scorticati, nudi, al contatto della realtà gridiamo, perché il linguaggio, per l’appunto, in noi si rompe. È l’esperienza dei limiti del linguaggio. È l’esperienza di “scrivere”. O più precisamente ancora, è l’esperienza propria di quel tipo di scrittrice che è KM. La quale questi contatti brucianti li ha sempre cercati — vivendo, e scrivendo. Come pochi altri scrittori e scrittrici, lei ha provato la consapevolezza inquietante di quando il sentimento del mondo si scontra con i limiti della lingua. Perché lei cerca la vita, la vita… Lo testimoniano la sua esistenza nomade, e la sua incessante, randagia esplorazione della bellezza e della verità dell’emozione.
Ha un coraggio grande, KM. È eroica, la nostra donna degli antipodi. Lo è nel senso che ha l’audacia di fare della propria esistenza un pellegrinaggio verso la visione di ciò che è ineluttabilmente perduto, di ciò di cui non si può dire. Visioni ed esperienze, se volete, mistiche. Che però, essendo KM una scrittrice, vuole, desidera, cerca di portare alla lingua. Non vuole che restino mute.
Epperò, c’è del mistico, direbbe Wittgenstein, nel modo in cui KM scrive.
Ribelle, pellegrina, trasformista, senza altre radici, se non quelle che fonda nella scrittura, dalla sua lingua inventata emana la vivida luce di una realtà indicibile, in cui invita il lettore, la lettrice ad affondare tutti interi, col cuore e col cervello; una realtà aurorale semplicissima, e insieme profonda e magica, che dalla distanza del tempo passato, anche nel senso di perduto, rinasce nella sua immaginazione e nella sua scrittura.
Quella di KM è una scrittura dell’anima. Scrivere significa per lei avventurarsi nel tempo e nello spazio come in un viaggio verso l’origine, che è sempre anche un inizio. Perché l’anima è un demone legato al luogo di nascita, un custode della vita lì dove nasce, e proprio lì KM torna scrivendo. Nei luoghi che ha abbandonato, da cui si è strappata in cerca dell’esperienza.
Non a caso per lo più i suoi racconti sono scritture che corrono ai margini della vita; anzi, sono vere e proprie scritture al margine dell’esistenza, di cui con straordinaria, fulminea verità colgono l’essenza in un dettaglio, in una immagine. Epifanie della sua prensile fantasia imagista, che si fa grafica trascrizione di sedimenti emozionanti di esperienze mentali, ricordi, vissuti esperienziali cosparsi di scorie di vita che bruciano e scottano chi legge. Racconti brevi e fulminei che del dolore del vivere colgono la fiamma abbagliante.
Chi legga i racconti di KM — tutti straordinari, a cominciare dal suo Viaggio a Urewera — comprenderà che il prezzo del suo cammino à rebours nella scrittura è, alla lettera, una iniziazione alla sua propria morte e rinascita. Perché accogliendo in sé il tesoro che questa scrittrice ci lascia in eredità, noi che leggiamo siamo invitati a entrare con lei in un colloquio autentico, in una relazione creativa. Alla lettera. Nel senso, cioè, che chi legge, accogliendo in sé, grazie all’ascolto, la sua parola poetica, non potrà non riportare alla vita chi l’ha pronunciata. Anzi, proprio questo ci insegna KM: se scrivere è inoltrarsi nel mistero alchemico di un’opera al nero, leggere lo è altrettanto.
Così quel 9 gennaio del 1923, se KM salendo di corsa le scale, eccitata, felice, dopo la serata passata a guardare le danze, s’involò nella dimensione della morte, noi torneremo ora e sempre a incontrarla nei suoi racconti. Ma non è magia. È arte.
Perché l’artista che è KM sa rinascere nella lingua che inventa.