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21 Giugno 2025“Victoria o muerte”
MONIKA ERTL, LA GUERRIGLIERA TEDESCA CHE VENDICÒ CHE GUEVARA
Tre colpi di pistola ad Amburgo, dalla Bolivia con furore. Era figlia di un cineasta, rivoluzionaria, cacciatrice di nazisti, nome di battaglia “Imilla”. La bellezza e il ghiaccio di un cuore infranto
di
Il 1° aprile del 1971, ad Amburgo, una bellissima ragazza, vestita in modo particolarmente elegante, fa il suo ingresso nel consolato della Bolivia, dove ha un appuntamento. E’ una turista australiana, o almeno così si è presentata qualche giorno prima quando ha telefonato per richiedere il visto d’ingresso nel paese sudamericano. Vuole parlare direttamente con il console ed è fortunata perché proprio in quel momento il funzionario sta per entrare nella sua stanza e vedendola fa cenno alla segretaria di farla entrare. Una volta dentro, l’uomo non ha nemmeno il tempo di stringerle la mano che la ragazza estrae dalla borsetta una pistola, e guardandolo dritto negli occhi spara tre colpi che lo centrano in pieno petto. Strana data, il 1° aprile, per uccidere e per morire.
Sentendo gli spari, la moglie del console Roberto Quintanilla, che si trova nella stanza accanto, interviene. E’ la sola a muoversi. Tenta di bloccare l’assassina di suo marito ma dopo una breve colluttazione la donna riesce a divincolarsi e nel giro di pochi minuti si volatilizza. Alla signora Quintanilla resta in mano una parrucca bionda. A terra un paio di occhiali, una borsa e la pistola che l’omicida si è lasciata sfuggire (della pistola parleremo più avanti). All’interno della borsa, un biglietto scritto in lettere maiuscole: VICTORIA O MUERTE. ELN Amburgo è la città che segna un inizio e una fine nella vita di Monika Ertl, il cui nome di battaglia, all’epoca dei fatti, è Imilla. Così si chiama quella ragazza incredibilmente bella che ha ucciso per vendetta. Ma andiamo per ordine, anche se tentare di dipanare il filo intricato di una vita che pare frutto di invenzione romanzesca è impresa ardua. Monika ha sedici anni quando a dicembre del 1953, da Amburgo, si imbarca su una nave insieme alla madre e alle due sorelle. Quattro settimane di traversata per raggiungere Buenos Aires e lasciarsi definitivamente alle spalle un’esistenza fin lì pacifica fatta di abitudini, amicizie e studi. Il motivo di un viaggio che ha tutta l’aria di una fuga si deve al ricongiungimento con Hans Ertl, il padre, che vive in Sudamerica da ormai tre anni. Ci è arrivato seguendo la Ratline (la via dei ratti), la famigerata rotta di cui usufruirono criminali di guerra e collaborazionisti che alla fine della Seconda guerra mondiale sfuggirono alla giustizia trovando rifugio in America Latina. Hans Ertl è uno di loro, ma non è un gerarca nazista, non ha ucciso nessuno. Il suo apporto al Terzo Reich è di natura “estetica”, o come egli rivendica, artistica: sono sue le riprese del controverso capolavoro della regista Leni Riefenstahl Olympia, girato durante le Olimpiadi di Berlino nel 1936. E’ lui l’artefice delle spericolate inquadrature di tuffatori che sembrano spiccare il volo verso il cielo, di sciatori il cui brivido del salto dal trampolino è restituito dalla soggettiva dello stesso Ertl che si fa imbragare la macchina da presa al torace. Hans Ertl è uno dei più bravi operatori del cinema e senza dubbio il più audace grazie alle doti sportive per cui è conosciuto: alpinista eccezionale, fu il primo, fra le altre imprese, a raggiungere gli oltre settemila metri dell’Himalaya con una cinepresa in spalla.
Leni Riefenstahl lo assolda dopo averlo incontrato sul set di SOS Iceberg di Arnold Fanck, nel quale è attrice protagonista, interamente girato sui ghiacci della Groenlandia e sulle cui incredibili riprese andrebbe scritto un racconto a parte. Dopo una breve relazione sentimentale (dettaglio insignificante per alcuni ma fondamentale per la Riefenstahl, notoriamente succube dell’estetica: Ertl, oltre al talento, possiede un’avvenenza fuori dal comune, e in questa storia la bellezza ha un ruolo non secondario), i due stringono un sodalizio artistico. Pur non essendo iscritto al Partito nazista, Ertl collabora attivamente con il ministro della Propaganda Goebbels che gli affida le riprese delle adunate del Terzo Reich e lo spedisce a Roma per documentare l’incontro di Hitler con Mussolini. Sul suo curriculum figura anche il titolo di “fotografo di Rommel” conferitogli dallo stesso feldmaresciallo della cui leggendaria unità, l’Afrikakorps, aveva documentato le imprese militari.
A guerra conclusa gli viene interdetto diesercitare la sua professione, del suo talento i tedeschi fanno volentieri a meno. Ertl ripara prima in Cile poi si stabilisce definitivamente in Bolivia: acquista un terreno di tremila ettari confinante con la giungla e costruisce con le sue mani la casa in cui vivrà il resto della sua lunga vita: La Dolorida.
Quando la famiglia sbarca in Argentina lui non sarà lì ad attenderla. Per moglie e figlie ha organizzato il trasferimento in treno a La Paz (immaginiamo l’arrivo nella capitale boliviana, a 3.700 metri, dopo un viaggio interminabile, e l’impatto con la potenza di certi paesaggi a confronto con il solo possibile riferimento, la Baviera…). Trascorreranno insieme soltanto quindici giorni, Hans deve partecipare alla spedizione alpinistica per la conquista della vetta del Nanga Parbat, “la montagna del destino dei tedeschi”, impresa alla quale non può rinunciare. Senza alcuna conoscenza della lingua, in una fattoria sperduta nella giungla avvolta dall’atmosfera rarefatta delle altitudini boliviane, tre ragazzine e una giovane donna sono costrette ad abituarsi a una vita che non hanno scelto. Monika si ammala, il suo corpo non si adatta all’altitudine. Ha le convulsioni, le viene diagnosticata una forma di epilessia giovanile. Al suo ritorno dall’Himalaya, Hans prende in affitto una villetta a La Paz, vicino alla scuola tedesca dove ha iscritto le ragazze. Il quartiere in cui vivono è un’enclave germanica, la Bolivia lì non esiste. I vicini di casa parlano tutti tedesco e possiedono nelle loro librerie una copia del Mein Kampf. Fra loro un caro amico di Hans che le ragazze chiamano “zio Klaus” (tenete a mente questo nome).
La salute di Monika migliora ma ha difficoltà negli studi, non si concentra, ha problemi di memoria. Preferirebbe lavorare con il padre, anche per lei il cinema è una grande passione. E Hans, che stravede per la figlia, la asseconda al punto di coinvolgerla in un’avventura appassionante: la realizzazione di un documentario sulle tracce di un’antica capitale Inca sepolta, insieme ai suoi tesori, nella foresta vergine. Cinque mesi di riprese per girare Paititi e la soddisfazione del ritrovamento di preziosi manufatti fra cui una straordinaria maschera d’oro (con le fattezze di un demone…). La diciassettenne Monika ha imparato il mestiere e diventa assistente del padre. E’ talmente brava che nel successivo lavoro, un’azzardata spedizione nel cuore dell’Amazzonia, la regia è firmata da entrambi. In Hito Hito il padre riprende la figlia, bella come un’attrice, intenta a catturare serpenti velenosi o ad attraversare in canoa un fiume infestato da coccodrilli.
Roberto Quintanilla è console boliviano ad Amburgo. Gli spari il 1° aprile 1971, l’intervento della moglie, il biglietto trovato nella borsa
Monika ha sedici anni quando nel 1953 raggiunge il padre in
Sudamerica, dove era arrivato seguendo la “via dei ratti”
Hans non è un gerarca, il suo apportoalTerzoReichèstatodinatura estetica. Audace cineoperatore, ebbe una relazione con Leni Riefenstahl
Monika diventa assistente del padre. Poi un matrimonio disastroso, infine i contatti con i circoli rivoluzionari boliviani
La pistola, una Colt Cobra 38 Special, apparteneva a Giangiacomo Feltrinelli. La fine di Monika arrivò a causa dello “zio” Klaus Barbie, il “boia di Lione”
Monika è coraggiosa, e questa è una dote che segnerà le sue scelte future. L’esperienza dei due film si rivela un banco di prova per la sua resistenza fisica e mentale. Monika sopporta la furia delle piogge tropicali, l’oscurità della giungla, il ribrezzo per insetti mostruosi, il clima estremo. Impara a badare a se stessa e a prevedere i pericoli, a maneggiare le armi, ad avere pazienza. Senza saperlo il padre le ha offerto un addestramento che un giorno non troppo lontano risulterà prezioso.
Il 1958 è segnato dalla morte della madre, uccisa da un cancro al fegato. Entra in scena l’amante di Hans, ora libera di presentarsi come compagna ufficiale. Le figlie la detestano, il padre non si occupa di loro. Monika si sente sola e per reazione comincia a frequentare una famiglia di ricchi tedeschi. Il figlio maggiore la corteggia, lei cede e accetta di sposarlo. E’ l’illusione di
una nuova vita. La coppia si trasferisce in Cile, il marito è proprietario di una miniera di rame. Conducono una vita agiata fatta di ricevimenti, abiti eleganti e partite a golf, ma “era una recita”, dirà la sorella Trixi che conosce l’indole di Monika. Dietro la facciata del benessere appare lo spettro delle condizioni miserabili dei minatori ed è a partire da questo momento che il cuore di Monika Ertl comincia davvero a battere. Lei, che ha sempre vissuto in una bolla di irrealtà, per la prima volta si confronta con la vita vera. Dentro casa le cose non vanno per il verso giusto: il marito è geloso, possessivo. Il matrimonio è un fallimento. La coraggiosa Monika non cede al bluff, molla il marito e torna a La Paz. Si apre un nuovo capitolo. D’ora in poi si occuperà dei meno fortunati. Gli orfani, ad esempio. I bambini bisognosi. Istituisce un rifugio per accoglierli, aiuta le famiglie in povertà. Entra in contatto con i circoli rivoluzionari boliviani (non è chiaro come, ma la predisposizione alla ribellione è sempre foriera di incontri…), Che Guevara diventerà il suo riferimento esistenziale. Divora i saggi e i discorsi del comandante, gli dedica dei versi: Sì, tu m’insegnasti / che l’uomo è Dio / …anche colui che è alla tua sinistra, sul Golgota / il malvagio ladrone / anche lui è un Dio.
Il padre, naturalmente, si oppone alla svolta revolucionaria della figlia, forse già intuisce che dietro tutto ciò che di inimmaginabile lei farà, non c’è solo il vento anticonformista degli anni 60, ma il peso di un passato di cui è d’obbligo un riscatto. Il senso di colpa che Hans Ertl non ha mai provato cade sulle spalle di Monika, i suoi compagni racconteranno che “era ossessionata dalla lotta contro i nazisti e dal desiderio di riparare almeno in parte i loro crimini.”
Il 9 ottobre 1967 è una data spartiacque. Catturato dall’esercito boliviano insieme ad altri guerriglieri, Ernesto Che Guevara viene assassinato a sangue freddo a La Higuera, un villaggio sperduto nella selva boliviana. L’immagine del suo cadavere, riverso su un tavolo, lo renderà immortale (mi ha sempre impressionato il prodigio della bellezza fisica di Guevara che si fa beffa dello scempio della morte) contraddicendo la frase che pare avesse pronunciato prima di essere fucilato: “Non sparate, vi sono più utile da vivo che da morto”.
Negli occhi morti ma ancora vivi del Che, Monika Ertl legge l’esortazione a non mollare, a continuare in vece sua. Così sarà, ma più forte ancora cresce in lei un desiderio di vendetta che non troverà pace. Il mandante dell’omicidio è l’allora colonnello dei servizi segreti Roberto Quintanilla, responsabile di un’azione se possibile ancor più oltraggiosa: il vilipendio del cadavere di Guevara, al quale fece amputare le mani, in seguito spedite a Fidel Castro, affinché fosse ufficializzata l’identità mediante le impronte digitali. Esiste una foto delle mani mozzate gettate come scarti di macello su fogli di giornale, per ironia se ne intravede un titolo: “Epoca de guerrilleros”… Dopo la morte di Che Guevara, Monika si unisce attivamente all’Esercito di liberazione nazionale e rompe definitivamente con la vita precedente. Al principio il suo apporto alla causa si esprime nel sostentamento dei sopravvissuti del gruppo armato guevarista, ai quali offre rifugio e protezione mettendo addirittura a disposizione un appartamento di proprietà della famiglia dove imboscare le armi. Fra loro c’è colui che viene considerato l’erede diretto di Che Guevara. Si chiama Inti Peredo ed è l’uomo del destino, e forse l’unico amore della vita di Monika che da questo momento adotterà il nome di battaglia Imilla ( giovane indigena in lingua quechua). Monika Ertl non esiste più. Ormai accecata dalla febbre rivoluzionaria (e dalla passione per Inti) si spinge fino al punto di chiedere al padre l’utilizzo di una zona della tenuta La Dolorida per gli addestramenti militari dei suoi compagni. Al prevedibile rifiuto del genitore risponde con la clandestinità. Per tre anni Hans Ertl non avrà più notizie della figlia salvo un laconico messaggio: “Sto bene, non preoccupatevi”.
La notte del 9 settembre del ‘69, Inti Peredo la trascorre solo, senza Imilla, in un covo a La Paz. Arriveranno in centocinquanta ad assediare la casa, crivellandola con migliaia di colpi. Inti si difende come può ma resta ferito gravemente. Catturato, sarà torturato brutalmente fino al colpo di grazia inferto dall’uomo che ha dato inizio a questa storia: Roberto Quintanilla. Stavolta sarà lui in persona ad apparire trionfante nella solita foto di rito accanto al cadavere: ha in mano una sigaretta, e sembra stia per gettare la cenere sul cuore di Inti. I motivi che spinsero Monika Ertl alias Imilla a percorrere undicimila chilometri, raggiungere il consolato boliviano di Amburgo e sparare tre colpi sono ormai lampanti. Il precauzionale e repentino trasferimento dell’ex colonnello dei servizi segreti boliviani in Germania non aveva messo in conto il cuore infranto di Imilla. Dopo la morte del compagno Inti, Imilla assume il comando della guerriglia, anche se la perdita dei capi storici la condanna al fallimento. Per organizzare la sua vendetta e allargare il campo di azione prende contatto con esponenti della sinistra radicale in Europa, poi si trasferisce a Cuba dove conosce il filosofo francese Régis Debray, compagno di lotta di Fidel Castro e Che Guevara (che dirà di lei: “Era una donna formidabile, un’eccezionale presenza fisica e morale”). E’ lì che viene organizzato il piano per l’eliminazione di Quintanilla, condannato dall’anatema lanciato da Fidel dopo la morte del Che: “Li voglio tutti morti”.
Da qui in poi, come sempre in questi casi, si susseguono voci, supposizioni e versioni discordanti sulla dinamica dei fatti. Quel che è certo è che la pistola usata per uccidere, una Colt Cobra 38 special, apparteneva a Giangiacomo Feltrinelli. E qui mi fermo un istante per fantasticare sul possibile cast di un film su Monika Ertl (com’è possibile che non sia stato realizzato…?) e sugli straordinari personaggi che hanno gravitato attorno alla sua figura. Ma un film non sarebbe mai all’altezza della realtà. Dopo l’omicidio, sulla testa di Monika Ertl pende una taglia di ventimila dollari (la testa di Che Guevara non era valsa più quattromila…), e un mandato di cattura internazionale. Hans Ertl vede l’identikit di sua figlia sulle prime pagine di tutti i giornali, di Monika non si sa più nulla e mai si saprà come abbia fatto a sfuggire alla giustizia. Le indagini la segnalano ovunque: sull’esempio del Che, Imilla cambia generalità e nazionalità per disorientare i suoi inseguitori, forte dei molteplici passaporti contraffatti gira a zig zag per l’Europa. Viene localizzata a Zurigo sia prima che dopo l’omicidio, e si suppone che proprio lì abbia incontrato l’editore milanese per la consegna della pistola. Non è escluso che sia stato Feltrinelli a finanziare il viaggio di Monika ad Amburgo. Quel che si sa è che dopo due anni di fuga Imilla riesce incredibilmente a tornare in Bolivia passando prima per Cuba e Cile. E ci si chiede perché mai abbia preso la suicidaria decisione di tornare nel luogo al mondo per lei più pericoloso, ma forse è proprio questo ciò che vuole. Sceglie la notte di capodanno per rientrare a La Paz, approfitta della baraonda per i festeggiamenti e si eclissa negli slum, nascondendosi in una baracca. Nonostante il pericolo, rimette in piedi l’orga nizzazione, stampa e diffonde il giornale illegale El Inti. Riesce più volte a dileguarsi prevenendo la sua possibile cattura grazie forse a quell’istinto esercitato durante i lunghi mesi trascorsi nella giungla assieme al padre. Sa bene Monika di avere poco tempo, e sa anche come andrà a finire, ma c’è un’ultima cosa da fare, qualcosa a cui pensa da diversi anni, da quando cioè ha scoperto che lo “zio Klaus” di cognome non fa Altmann come le era stato detto, ma Barbie. Klaus Barbie, il “boia di Lione”, uno dei più brutali criminali nazisti, scampato al processo di Norimberga, al soldo dei servizi segreti statunitensi e boliviani che gli hanno garantito protezione in Bolivia in cambio di una fattiva partecipazione alla repressione. E’ insieme a Debray che Monika pianifica il sequestro dell’ex nazista con lo scopo di riconsegnarlo alla giustizia francese che lo aveva condannato a morte in contumacia nel 1947 e nel 1954 con l’accusa di aver commesso migliaia di omicidi. Gli stanno alle costole per diverso tempo, ma Barbie, che può contare su numerosi informatori, viene a conoscenza del piano. Sa chi ne ha ordito la trama, non ha dubbi: Monika Ertl, la ragazzina che gli stampava un bacio sulla guancia quando lo vedeva arrivare a casa, deve essere eliminata. Ad aiutarlo è un colpo di fortuna per lui e sfortuna per lei. Sapendo di essere braccata Monika non esce quasi mai, quando le capita di mettere il naso fuori dal covo del momento, si camuffa, si concia, si veste di stracci. Ma è alta Monika, molto più alta della media della popolazione femminile boliviana, e per quanto si accucci, spicca. E infatti, anche se per puro caso, Klaus Barbie la nota. Sta camminando lungo il muro di una stradina dove lui si trova a passare, e anche se distante non ha dubbi che si tratti di lei, e in men che non si dica comunica alle autorità boliviane di aver localizzato la guerrillera ricercata. Il cappio si stringe.
Nella sua hacienda protetta dalla giungla, Hans Ertl ascolta come sempre il notiziario del mattino sintonizzato sulla stazione radiofonica Deutsche Welle. Probabilmente non è molto sorpreso quando sente il nome di sua figlia: “Uccisa insieme a un altro capo guerrillero durante una retata in un covo di cospiratori alle ore 23 della scorsa notte.” E forse è anche sollevato nel sapere che la sua Monika sia morta su un marciapiede, a seguito di uno scontro a fuoco, e non dopo giorni di tortura e di violenze come è uso nei confronti dei sovversivi.
Vorrebbe vederlo il corpo di sua figlia. Non l’ha più vista, da viva, per oltre cinque anni, che almeno gliela facessero vedere da morta. La vedrà solo in fotografia, come vuole il macabro rituale inscenato dalle autorità. Distesa a terra, la bocca semi aperta, come il Che. I suoi occhi però sono chiusi, anche lei è bellissima.
Il corpo di Monika Ertl, morta nel 1973 a trentaquattro anni, è stato gettato in una fossa comune e mai restituito alla famiglia. Nel cimitero di La Paz, su una grande roccia che fa da lapide, figura il nome di Monika accanto a quello di sua madre, anche se non sono insieme. La roccia è stata scelta dal vecchio scalatore Hans Ertl sulle montagne boliviane e lì trasportata.
Il nome di Hans, sopravvissuto per quasi trent’anni alla morte di sua figlia, è invece inciso su una piccola lapide nel giardino incolto de La Dolorida, la fattoria da cui non si è mai allontanato, oggi diventata un museo.