di Niccolò Zancan
Un susino davanti alla finestra dello studio. Cielo e ulivi. Parole e disegni. Amici e compagni: Francesco Guccini, Dario Fo, Altan. E poi Firenze, tutta intera, al fondo della vallata. Quanta luce a casa di Sergio Staino.
«La comprò il padre di mio padre, il carabiniere Giovanni Staino. Era venuto a Firenze per servizio, si era innamorato di Norina. La scelta di vivere sulle colline fu già nel segno di papà. Perché era un bambino affetto da una fortissima miopia e il pediatra disse che l’aria di campagna lo avrebbe aiutato. Mio nonno pagò pochi soldi per questa vecchia casa colonica, a quel tempo tutti volevano stare in città».
Sergio Staino è cresciuto qui, qui ha creato il suo mondo e sempre qui è morto sabato 21 ottobre. Se si esclude un anno trascorso a Roma con tutta la famiglia quando lavorava come vignettista per l’Unità, questa è sempre stata la sua finestra sul futuro. «Per me quell’anno a Roma fu difficile. Mi obbligavano a fare l’ora di religione, ma io non l’avevo mai fatta. Tornavo a casa e dicevo: “Papà, mi costringono a fare certi strani segni con le mani”. Sento ancora la voce del babbo: “E menomale che la tua scuola si chiama Giuseppe Mazzini!”. Fu il fax a salvarmi». Come il fax? «Papà era entusiasta di ogni innovazione tecnologica. Quando ebbe la possibilità di usare il primo fax, era il 1989, tornammo qui. Mandava le sue tavole da Scandicci».
Tutte le pareti di casa raccontano storie. E sono tutte storie d’amore. Un autografo con dedica di Tom Waits. Un disegno irridente di Andrea Pazienza: c’è Bobo su un prato, l’alter ego di Staino, con gli occhiali spessi e la vista compromessa. Intravede tre pietre. Tre sassi immobili. E dice: «Guerra fredda eh!». La sensualità della moglie Bruna in ogni stanza. Sono i disegni dedicati a lei. Staino aveva conosciuto Bruna Pinasco, originaria di Lima, ai gruppi marxisti leninisti di Firenze. In una tavola, dove lui è vestito e lei è nuda, scrive: «È bella la mezza età con una donna così».
Il figlio si chiama Michele Staino, è lui che ci accompagna fra i ricordi di una vita splendida. Secondogenito dopo Ilaria, nato nel 1980 in ossequio alla tradizione di famiglia: il padre è del 1940, la nonna è del 1920. È un musicista jazz, suona il contrabbasso. Ma negli ultimi anni è stato anche la mano di suo padre quando la miopia era diventata cecità, e disegnare non era più possibile. «Non era facile lavorare con papà. Era duro. Burbero. Pretendeva molto. Non gliene faccio una colpa, ci teneva così tanto al suo lavoro. Lo capisco. Aveva delle scadenze pressanti. Capitava che telefonasse per dire: abbiamo venti minuti. Spesso quelle vignette sono state le migliori che abbiamo fatto». Come funzionava il vostro laboratorio creativo condiviso? «Lui disegnava un bozzetto, riusciva a farlo anche quando ormai era cieco. Oppure mi dava l’idea e le parole, io elaboravo tutto sull’iPad. Alla mamma toccava il compito di revisione. Lei guardava per conto di papà il lavoro finito».
L’intera collezione di Tango è in alto, su uno scaffale uguale a tutti gli altri. La redazione è disegnata da Carlin, un illustratore peruviano: Staino, Serra, Vincino, Riondino, Hendel, Gino e Michele, un giovane Giovanni De Mauro che in futuro sarà direttore di Internazionale. Una dedica affettuosa di Adriano Sofri è sul muro: «Al mio caro Sergio, dopo la sua tavola che diceva: “Mi manchi”».
Le matite sono al centro del tavolo. Ma il tavolo luminoso è stato sostituito dai primi schermi digitali, poi da computer sempre più moderni. «Mio padre non ha mai rimpianto il passato. Ancora pochi anni fa sognava un nuovo giornale satirico, un’altra redazione. Ne parlava con Altan. Faceva progetti in continuazione. Certe volte mi faceva impressione: dovevo essere io quello giovane, fra i due». E della morte, cosa diceva? «Quello che ha sempre pensato. Come in quel pezzo di Braian di Nazareth dei Monty Python che guardavamo insieme: “All’inizio sei niente. Torni a essere niente. Quindi cosa hai perso? Niente”».
Eppure tutta questa luce resta. Restano i successi e i tentativi. Restano le pagine. Il cartellone del film «Non chiamarmi Omar». Resta il ricordo di una schiettezza politica inesauribile: «Suo fratello ha sposato una donna russa. Essendo una donna russa aveva la versione russa della guerra in Ucraina. Mio padre era quasi arrivato a togliere il saluto». Di passioni si vive, di studi e letture. Mai di odio. «Di tutto quello che mi ha insegnato papà, forse la lezione più importante è proprio questa: non guardare le piccolezze, non essere micragnosi, non essere invidiosi. Questa era la sua idea. Ma io una cosa di mio padre non posso non invidiarla, con la sola forza del suo lavoro lui poteva essere amico di tutte le persone che stimava».
Forse è proprio questa la luce speciale che passa dalle finestre di questa vecchia casa colonica sulla collina di Firenze, la luce delle amicizie di una vita intera. E l’Unità? Come è stato il breve periodo da direttore dell’Unità? «Aveva voluto crederci anche quella volta. Si era fatto convincere da Matteo Renzi, perché gli aveva assicurato che sarebbe stato un direttore libero. Ma gli cambiavano i titoli a sua insaputa. Ricordo quello sulla morte di Fidel Castro. Che per papà era l’ultimo del secolo dei sogni, ma fu trasformato nell’ultimo del secolo delle illusioni. Cose imbarazzanti. Quando si è sentito preso in giro, ha mollato. Come dava fiducia, così rompeva».
Sulla scrivania c’è una copia del romanzo «Il vecchio che leggeva romanzi d’amore» di Luis Sepulveda. Libri ovunque: Marx, Engels, Lenin. «Leggeva sempre, finché ha potuto. E se non aveva niente da leggere, piuttosto leggeva l’etichetta dello shampoo. Quando io avevo 13 anni faceva già molta fatica con gli occhi. Gli ho letto tutto Jurassic Park ad alta voce. Gli è piaciuto tantissimo, così come gli piacevano i videogiochi. Era felice del successo di ZeroCalcare. Si alzava sempre alle sette, sentiva le notizie alla radio e pensava al futuro».
Fino a quando è venuto l’ultimo anno. «Un pomeriggio, davanti all’amico Adriano Sofri, in un momento di confusione e poesia, ha detto quella frase finita nell’ultima vignetta: «Io sono il raccattapalle del mio destino». Ma questa è la fine, non l’inizio. Ed è l’inizio che rende impossibile trattenere le lacrime al figlio di Sergio Staino.
Michele Staino stacca dal muro un minuscolo quadretto con dentro un disegno. È Bobo. La dedica è di Carl Barks, l’inventore di Paperino. «Per mio padre ricevere Topolino era il momento di massima felicità. Leggeva accanto alla mamma, poi disegnava sul retro delle buste usate perché in casa non aveva fogli bianchi. In quel momento preciso è incominciata tutta la storia».