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7 Gennaio 2024di Maurizio Ferrara
Insieme ad autori come Karl Popper, Raymond Aron e Isaiah Berlin, Norberto Bobbio, di cui ricorre il 9 gennaio il ventennale della scomparsa, è stato annoverato fra i grandi «erasmiani» dell’Europa novecentesca. Il termine fu coniato dal sociologo Ralf Dahrendorf per identificare gli esponenti di spicco della forma mentis liberale, caratterizzata dalla passione per la libertà, la promozione della società aperta, l’esercizio del dubbio critico, il rifiuto della faziosità.
Nel contesto italiano, Bobbio ha svolto un ruolo di primo piano nella modernizzazione della cultura politica nazionale e nel suo definitivo ancoraggio ai principi della liberaldemocrazia. Volendo usare una formula riassuntiva, possiamo dire che lo studioso torinese ha dato un contribuito fondamentale al superamento di tre ingombranti tradizioni: l’idealismo di matrice crociana, il marxismo e l’integralismo cattolico. Un superamento basato su un nuovo approccio «neo-illuminista», incentrato sulla ragione critica, sulla teoria e pratica della «chiarezza» come condizione necessaria per un dialogo costruttivo fra diverse posizioni. Secondo una sua nota definizione, «la cultura è equilibrio intellettuale, riflessione critica, senso di discernimento, aborrimento di ogni semplificazione, di ogni manicheismo, di ogni parzialità». Una formulazione che condensa in modo esemplare la visione della mentalità liberale.
Il lavoro intellettuale di Bobbio si è dipanato su tre diversi versanti. Quello scientifico, innanzitutto, in particolare nei campi della filosofia del diritto e della politica. Con i suoi numerosissimi scritti, lo studioso ha portato una salutare ventata di realismo. Bobbio è stato fra i primi sostenitori del positivismo giuridico, secondo cui il diritto è una costruzione normativa la cui efficacia non dipende solo dalla coerenza interna, ma anche dalla connessione con il potere politico. Senza il diritto, il potere è cieco, senza il potere il diritto è «disarmato» e dunque inefficace.
Nel campo della filosofia politica, collocandosi nel solco del contrattualismo moderno (quello di Thomas Hobbes in particolare) Bobbio ha guardato alla politica come sfera autonoma rispetto alla morale, rivolta ad affrontare l’ineludibile sfida della violenza, interna e internazionale. Gli Stati non si governano «con i paternostri», ma con istituzioni e politiche capaci di addomesticare il «centauro machiavelliano», ossia la contrapposizione fra utilità «brute», sorrette dalla forza. I paternostri e il pacifismo etico servono ancora meno per contrastare la violenza nell’arena inter-statale, dove serve invece un paziente lavoro di rafforzamento delle organizzazioni internazionali.
L’adesione al realismo non ha impedito a Bobbio di perseguire un originale progetto normativo. Il compito delle leggi e della politica non si limita alla garanzia dell’ordine, ma si estende alla realizzazione di valori. Il giuspositivismo bobbiano riconosce che i diritti hanno uno straordinario potere trasformativo sul piano civile, politico e sociale, purché sorretti da assetti istituzionali ben disegnati. In politica, poi, non è vero che il fine giustifica sempre i mezzi. Anche i fini vanno giustificati e il politico deve agire secondo la weberiana etica della responsabilità, cioè in base al calcolo delle conseguenze sottoposto alla valutazione pubblica.
Il secondo fronte dell’impegno di Bobbio è stato quello universitario. Soprattutto nei turbolenti anni Settanta, il professore torinese fu uno dei pochi fari di serietà e impegno «erasmiano». Può sembrare un ruolo di poco conto. Ma chi ha vissuto — come chi scrive — il caos della contestazione di quegli anni (di piombo) in una città come Torino, non può non ricordare con gratitudine il costante richiamo di Bobbio al dialogo costruttivo, all’investimento nel sapere. Bobbio riconosceva al movimento studentesco l’impegno ad allargare l’area dell’eguaglianza sociale e delle libertà. Ma ripeteva che fra queste libertà non poteva esserci quella dal rigore dello studio e dalla severità degli esami. Per i pochi che in quella temperie ideologica insistevano ad occuparsi del pensiero liberale, Bobbio rimase una straordinaria guida e fonte di ispirazione. Ricordo ad esempio l’entusiastico sostegno che egli diede alla pubblicazione di alcuni saggi di John Rawls da parte di «Biblioteca della Libertà», la rivista del Centro Einaudi.
Il terzo versante è stato quello del dibattito pubblico. Bobbio non si è limitato a teorizzare e giustificare il suo approccio razionalista, ma lo ha attivamente praticato nella sua instancabile attività di intellettuale impegnato, indipendente ma non indifferente rispetto all’agenda politica. Sin dal volume Politica e cultura (Einaudi, 1955), Bobbio aveva messo in luce il basso grado di spirito civile della società italiana, lo scarso radicamento dei valori liberali e democratici, la tendenza alle contrapposizioni ideologiche. Negli anni Sessanta e Settanta, molti liberali e molti socialisti criticavano la condiscendenza che il filosofo torinese mostrava nei confronti della cultura comunista: un’apertura di credito di matrice gobettiana e azionista. Bobbio stesso dichiarò di aver chiuso definitivamente i conti aperti col comunismo storico solo dopo la strage di Tienanmen.
Fu però proprio il suo favor nei confronti degli obiettivi di giustizia della dottrina comunista a rendere l’intellettuale torinese un interlocutore credibile e a costringere i leader e l’intellighenzia del Pci a prendere sul serio la sua provocatoria raccomandazione: per accampare la pretesa di costruire una nuova società dovete accogliere i valori posti dalla civiltà liberale.
La critica bobbiana degli idola tribus della sinistra comunista poggiò su un continuo sforzo di pedagogia politica, in particolare volto a chiarire la natura e i nessi fra liberalismo, democrazia e socialismo. Rifacendosi ai classici, Bobbio sottolineò innanzitutto l’irrinunciabile importanza del liberalismo, inteso come dottrina volta a limitare l’invadenza dello Stato e a valorizzare la libertà individuale, concepita in senso sia negativo, come non impedimento, sia in senso positivo, come capacità di fare. Il suo contributo più prezioso riguardò tuttavia la democrazia. Schierandosi contro la visione marxista e le sue interpretazioni «sostanziali» del concetto, Bobbio spiegò che la democrazia è soprattutto forma, ossia un metodo per far coincidere, tramite le libere elezioni, la volontà dello Stato con la volontà di tutti i cittadini. Recependo la lezione degli elitisti (Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, ma anche Joseph Schumpeter), Bobbio chiarì che la competizione fra élite per ottenere il voto popolare non è una malevola finzione borghese, ma il migliore strumento per rendere il potere politico responsabile nei confronti dei cittadini. Gli obiettivi (per lui importantissimi) di emancipazione e giustizia sociale della dottrina socialista dovevano essere perseguiti entro una robusta cornice liberaldemocratica, la sola capace di massimizzare l’eguaglianza senza soffocare la libertà.
Bobbio non risparmiò le critiche al funzionamento effettivo della democrazia, soprattutto nella realtà italiana. Non gli piaceva il neo-corporativismo, denunciò i processi di degenerazione partitocratica e di disgregazione particolaristica della società civile — per non parlare delle derive personalistiche e plebiscitarie dell’era berlusconiana. I suoi ultimi scritti tradiscono una buona dose di disincanto circa le promesse mancate della democrazia e le condizioni di una sinistra sempre più disorientata e divisa.
Al pari dello stesso Dahrendorf, Norberto Bobbio è stato uno dei più brillanti teorici del «secolo socialdemocratico» e delle sue conquiste. A dispetto del pessimismo manifestato nell’ultima fase, il suo pensiero e impegno intellettuale hanno avuto un impatto significativo e diretto sulla politica italiana. Rispetto agli altri erasmiani a lui contemporanei, uno dei limiti di Bobbio è stato quello di non saper cogliere l’importanza dell’integrazione europea e le sue implicazioni per la sua concezione della politica e del diritto. Il suo sistema di pensiero restò in questo senso ancorato al paradigma weberiano, tutto incentrato sullo Stato-nazione come monopolista della forza legittima e fonte di sovranità. Il suo cosmopolitismo «scettico» avrebbe potuto essere temperato da una maggiore attenzione verso l’emergenza di una costellazione post-nazionale, caratterizzata da nuovi tipi di diritti e di strumenti giuridici per la risoluzione dei conflitti, seppure su scala regionale.
Il lascito di Bobbio resta nondimeno imponente sul piano del metodo, dell’integrità intellettuale, della riflessione intorno alle funzioni del diritto e della politica. E, non da ultimo, sul piano della elaborazione di un progetto ambizioso di conciliazione democratica fra i tre grandi valori della modernità europea: eguaglianza, libertà, giustizia sociale.
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